75 MILA KILOMETRI DI PENSIERI (E CINQUE CAPOLAVORI ENOICI)
di FILIPPO APOLLINARI - 08 febbraio 2016
Sono 75 mila chilometri di pensieri quelli percorsi con la mia auto nel 2015. Più o meno la stessa cifra dell’anno precedente e di quello prima ancora; molti, moltissimi dei quali spesi all’insegna di lavoro e passione, due moventi che, nel caso del sottoscritto, convergono sul vino.
I chilometri odierni, tuttavia, hanno un sapore diverso, sia perché non mi capita più tanto spesso di guidare a notte inoltrata, sia perché sono frutto della prima lunga trasferta del nuovo anno. Il volante saldo tra le mani, la luna che sbadiglia e la testa che lavora senza sosta, mentre le strisce bianche della strada si ammucchiano a grande velocità dietro le mie spalle.
Il pensiero, influenzato dal contenuto di quest’ultima giornata di visite e assaggi, vola, in piena autonomia, a una manciata di vini intercettati durante l’anno appena trascorso e dei quali, per tempistiche o opportunità, non sono riuscito a scrivere nulla. Vini che sono scampati alla mia seriale attività di catalogazione, ma che si sono ugualmente salvati ai buchi neri della memoria, avendone, indelebilmente, segnato il corso. Un motivo più che sufficiente per non indugiare oltre e condividerne il ricordo; nessuna sequenza ordinata, nessuna classifica, semplicemente l’anarchico schema casuale della mente e la mia “playlist” musicale come sottofondo.
La prima diapositiva è dedicata a un vino dolce di “casa”, l’ALBANA DI ROMAGNA PASSITO RISERVA “AR” 2010 della Fattoria Zerbina, a mio avviso il più raffinato passito che sia stato realizzato in Romagna. Un nettare in grado di sedersi al tavolo dei migliori liquidi dolci del Pianeta.
L’AR nasce dalla volontà di Maria Cristina Geminiani, proprietaria e “régisseuse” della Fattoria Zerbina, di creare un passito di albana ottenuto esclusivamente da acini “Ròti”, ossia attaccati in pianta dalla muffa nobile (Botrytis Cinerea). Si tratta di una vera e propria evoluzione dello Scaccomatto, il passito botritizzato, nato nel 1987, che ha spinto la fama dell’azienda romagnola oltre i confini regionali. L’ingente patrimonio zuccherino e acido dell’albana, associato all’elemento ambientale, ha ispirato “un passo ulteriore nella direzione di un vino ancora più estremo”, caratterizzato da un residuo zuccherino sui 300 grammi per litro, un’acidità superiore ai 7 punti percentuali e un’alcolicità mediamente compresa tra i 6 e gli 8 gradi. Ecco perché, se Scaccomatto corre nel campionato dei Sauternes, AR si confronta maggiormente con i grandi “Trockenbeerenauslese” di Germania. Le prove sperimentali di questo vino, maturato esclusivamente in acciaio e vetro per non inficiarne la purezza espressiva, risalgono al 1996, mentre l’uscita ufficiale sul mercato è avvenuta con il millesimo 2004. Queste le annate prodotte: (1996, 1999, 2001) 2004, 2005, 2006, 2010, 2014. Dell’annata 2010, attualmente in commercio, sono state realizzate 600 bottiglie da 0,375. La raccolta degli acini è avvenuta il 6,7,8 e l’11 ottobre. Il ricordo è accompagnato da Confortably Numb dei Pink Floyd (The Wall, 1979).
Il secondo fotogramma accende l’abbagliante ricordo di un bianco d’Alsazia, il RIESLING GRAND CRU SCHLOSSBERG 2013 di Albert Mann, un vino luminoso, cristallino, granitico. Un vino che esalta vitigno e territorio senza temere il subcosciente paragone con i più affilati vini di Germania.
Wettolsheim è un minuscolo e serafico villaggio di un migliaio di abitanti nella periferia sud di Colmar. Qui, i fratelli Maurice e Jacky Barthelme, eredi di un’antica casata di vignaioli, conducono l’azienda di Marie-Claire e Marie-Therese, figlie del compianto Albert Mann. L’azienda, rispettosa dei canoni biodinamici, conta 21 ettari suddivisi in 8 comuni, per una produzione totale di 120 mila bottiglie all’anno, il 60% delle quali viene commercializzato all’estero. Nell’assaggio svolto in azienda, avvenuto nel maggio dello scorso anno, ad aver impresso la pellicola della mia memoria, oltre a un paio di Pinot Nero più che interessanti (Clos de la Faille 2013 e Grand P 2013), è stato il Riesling 2013 ottenuto dalla porzione che l’azienda possiede nello Schlossberg, il più vasto tra i 51 Grand Cru d’Alsazia: 80,28 ettari prevalentemente dedicati al Riesling. Il vigneto dello Schlossberg si trova a Kientzheim, a un’altitudine compresa tra 230 e i 350 metri sul livello del mare, con una pendenza che ha obbligato i vignaioli a terrazzare l’intera superficie vitata. L’esposizione asseconda la curva della collina, variando da sud ovest a sud est. Il suolo è costituito prevalentemente da migmatiti e rocce granitiche, con intersezione di sabbia grossolana e argilla. L’altra concentrazione di elementi quali potassio, magnesio, fluoro e fosforo contribuisce a conferire ai vini un carattere particolarmente minerale e definito. La versione 2013 ha un residuo zuccherino di 20 g/l e un’acidità pari al 9,2%. A renderne più vivo il ricordo contribuisce Space Oddity di David Bowie (Space Oddity, 1969).
Sollecitata da quest’ultimo vino, la memoria rimane sintonizzata su un altro capolavoro assaggiato durante il medesimo viaggio. Ancora un vino con residuo zuccherino, ancora un Riesling, ma questa volta scovato lungo le sponde “moselliane” del fiume Saar, in Germania: il RIESLING AUSLESE RAUSCH “GK” 2010 di Zilliken.
Herr Hanno Zilliken è uomo dall’aspetto canuto e dal portamento aristocratico. La determinazione del suo sguardo incarna la fierezza di una dinastia che si appresta, con la figlia Dorothee, ad accogliere l’undicesima generazione. Una storia legata almeno dal 1742 ai più prestigiosi vigneti di Saarburg e Ockfen, lungo le sponde ondulate del fiume Saar, uno dei principali affluenti della Mosella. Il liquido onirico che non riesco a dimenticare proviene dal Rausch di Saarburg, un vigneto di una ventina di ettari, la metà dei quali in possesso della famiglia Zilliken dalla notte dei tempi. Una porzione di vigneto di circa quattro ettari ospita piante con un'età compresa tra i 50 e 130 anni, mentre nella restante porzione convivono piante con un’età media di 20/30 anni. Il vigneto spazia dai 150 ai 300 metri sul livello del mare, con un’esposizione che gira da sud-ovest a sud-est nell’estremità orientale del “Cru”. Il terreno è composto da ardesia blu e rossastra, alternata a rocce vulcaniche e terra rossa. Un terreno che produce vini di particolare finezza, caratterizzati da note di lime, camomilla, menta e un'elegante mineralità idrocarburica. La versione 2010 di questo “Goldkapsel” presenta un residuo zuccherino di 150 g/l e un’acidità pari al 12,7%. In sottofondo Rocket Queen dei Guns N’ Roses (Appetite For Destruction, 1987).
Il “flashback” successivo mi riporta alle Langhe, la Terra che ho maggiormente “battuto” durante l’anno passato. Contrariamente a quello che io stesso avrei potuto ipotizzare, il vino che si è materializzato nella mia mente non è né un Barolo, né un Barbaresco (almeno non ufficialmente), ma il croccante e saporito LANGHE NEBBIOLO 2013 di Maria Teresa Mascarello. Un vino dalla beva inarrestabile.
Bartolo Mascarello non è solo il nume tutelare della prima generazione di vignaioli di Langa, è anche il custode di una tradizione che vuole il Barolo essere un vino di assemblaggio di nebbioli provenienti da più menzioni, in contrasto con il processo di “borgognizzazione” che è dilagato sul finire degli anni Settanta. Oggi questo ruolo si perpetua per mano di Maria Teresa, figlia di Bartolo, che è riuscita nella difficile opera di rinvigorire ulteriormente il blasone di questa mitologica cantina. L’azienda continua a mantenere immutato il proprio assetto, con cinque ettari vitati di proprietà (4 nel comune di Barolo e 1 a La Morra), dai quali vengono prodotte ogni anno 30/35.000 bottiglie. Il solo Barolo firmato - e conteso ogni anno da appassionati e clienti di tutto il mondo – continua a essere il risultato dell’assemblaggio di 4 vigne: Cannubi, San Lorenzo, Ruè, nel comune di Barolo, e le Rocche dell’Annunziata a La Morra. Con la versione 2011 questo Barolo è riuscito a superare persino quello che si riteneva essere insuperabile. Un vino che sancisce quello che ritengo essere un netto miglioramento stilistico apportato da Maria Teresa ai vini di famiglia. Teoria sottolineata anche dallo splendido Langhe Nebbiolo 2013, nato per il primo anno da una parcella affittata a San Rocco Seno d’Elvio. Un vino il cui solo pensiero stimola la sete. L’ascolto è quello di Street Spirit dei Radiohead (The Bends, 1995).
Nebbiolo chiama nebbiolo e, oramai a pochi chilometri da casa, la mente rievoca un Barolo assaggiato con la preziosa compagnia dell’amico Francesco Falcone: il Bricco Rocche che la famiglia Ceretto ha ottenuto dall’annata 1985, un millesimo che continua a regalare capolavori anche oltre la soglia dei trent’anni.
Il Bricco Rocche è la più piccola menzione (MGA) del comune di Castiglione Falletto, appena 1,46 ettari (di cui 1,22 vitati a nebbiolo da Barolo) in monopolio della famiglia Ceretto. Una vigna che impreziosisce un patrimonio viticolo invidiabile, che conta porzioni in menzioni del calibro di Brunate, Cannubi San Lorenzo, Prapò e Bricco Asili. L’impianto nel Bricco Rocche risale al 1978, mentre la prima annata prodotta al 1982. Questo vigneto si trova tra le Rocche di Castiglione e il Villero, nel punto più alto e prestigioso di quella striscia vitata conosciuta in passato come Serra di Castiglione. Siamo ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 365 m/slm, con un’esposizione che gira da sud-ovest a sud-est. La matrice geologica dominante è rappresentata dalle Arenarie di Diano. Con il Bricco Rocche Bruno e Marcello Ceretto hanno coronato il sogno di avere dei piccoli “chateaux” focalizzati sui “Grand Cru” della Langhe, uno a Barbaresco, nel Bricco Asili, e uno per l’appunto a Castiglione Falletto, nel Bricco Rocche. La guida tecnica, dal 2003, è nelle mani di Alessandro Ceretto, che ha anche intrapreso un percorso di avvicinamento alla biodinamica, arrivando a convertire in “bio” i circa 20 ettari (sui 160 totali in possesso dell’azienda) dedicati alla produzione di Barolo e Barbaresco. A ritmarne il ricordo c’è Rearviewmirror dei Pearl Jam (Vs - o “Five Against All” per i fans accaniti - 1993).
I chilometri odierni, tuttavia, hanno un sapore diverso, sia perché non mi capita più tanto spesso di guidare a notte inoltrata, sia perché sono frutto della prima lunga trasferta del nuovo anno. Il volante saldo tra le mani, la luna che sbadiglia e la testa che lavora senza sosta, mentre le strisce bianche della strada si ammucchiano a grande velocità dietro le mie spalle.
Il pensiero, influenzato dal contenuto di quest’ultima giornata di visite e assaggi, vola, in piena autonomia, a una manciata di vini intercettati durante l’anno appena trascorso e dei quali, per tempistiche o opportunità, non sono riuscito a scrivere nulla. Vini che sono scampati alla mia seriale attività di catalogazione, ma che si sono ugualmente salvati ai buchi neri della memoria, avendone, indelebilmente, segnato il corso. Un motivo più che sufficiente per non indugiare oltre e condividerne il ricordo; nessuna sequenza ordinata, nessuna classifica, semplicemente l’anarchico schema casuale della mente e la mia “playlist” musicale come sottofondo.
La prima diapositiva è dedicata a un vino dolce di “casa”, l’ALBANA DI ROMAGNA PASSITO RISERVA “AR” 2010 della Fattoria Zerbina, a mio avviso il più raffinato passito che sia stato realizzato in Romagna. Un nettare in grado di sedersi al tavolo dei migliori liquidi dolci del Pianeta.
L’AR nasce dalla volontà di Maria Cristina Geminiani, proprietaria e “régisseuse” della Fattoria Zerbina, di creare un passito di albana ottenuto esclusivamente da acini “Ròti”, ossia attaccati in pianta dalla muffa nobile (Botrytis Cinerea). Si tratta di una vera e propria evoluzione dello Scaccomatto, il passito botritizzato, nato nel 1987, che ha spinto la fama dell’azienda romagnola oltre i confini regionali. L’ingente patrimonio zuccherino e acido dell’albana, associato all’elemento ambientale, ha ispirato “un passo ulteriore nella direzione di un vino ancora più estremo”, caratterizzato da un residuo zuccherino sui 300 grammi per litro, un’acidità superiore ai 7 punti percentuali e un’alcolicità mediamente compresa tra i 6 e gli 8 gradi. Ecco perché, se Scaccomatto corre nel campionato dei Sauternes, AR si confronta maggiormente con i grandi “Trockenbeerenauslese” di Germania. Le prove sperimentali di questo vino, maturato esclusivamente in acciaio e vetro per non inficiarne la purezza espressiva, risalgono al 1996, mentre l’uscita ufficiale sul mercato è avvenuta con il millesimo 2004. Queste le annate prodotte: (1996, 1999, 2001) 2004, 2005, 2006, 2010, 2014. Dell’annata 2010, attualmente in commercio, sono state realizzate 600 bottiglie da 0,375. La raccolta degli acini è avvenuta il 6,7,8 e l’11 ottobre. Il ricordo è accompagnato da Confortably Numb dei Pink Floyd (The Wall, 1979).
Il secondo fotogramma accende l’abbagliante ricordo di un bianco d’Alsazia, il RIESLING GRAND CRU SCHLOSSBERG 2013 di Albert Mann, un vino luminoso, cristallino, granitico. Un vino che esalta vitigno e territorio senza temere il subcosciente paragone con i più affilati vini di Germania.
Wettolsheim è un minuscolo e serafico villaggio di un migliaio di abitanti nella periferia sud di Colmar. Qui, i fratelli Maurice e Jacky Barthelme, eredi di un’antica casata di vignaioli, conducono l’azienda di Marie-Claire e Marie-Therese, figlie del compianto Albert Mann. L’azienda, rispettosa dei canoni biodinamici, conta 21 ettari suddivisi in 8 comuni, per una produzione totale di 120 mila bottiglie all’anno, il 60% delle quali viene commercializzato all’estero. Nell’assaggio svolto in azienda, avvenuto nel maggio dello scorso anno, ad aver impresso la pellicola della mia memoria, oltre a un paio di Pinot Nero più che interessanti (Clos de la Faille 2013 e Grand P 2013), è stato il Riesling 2013 ottenuto dalla porzione che l’azienda possiede nello Schlossberg, il più vasto tra i 51 Grand Cru d’Alsazia: 80,28 ettari prevalentemente dedicati al Riesling. Il vigneto dello Schlossberg si trova a Kientzheim, a un’altitudine compresa tra 230 e i 350 metri sul livello del mare, con una pendenza che ha obbligato i vignaioli a terrazzare l’intera superficie vitata. L’esposizione asseconda la curva della collina, variando da sud ovest a sud est. Il suolo è costituito prevalentemente da migmatiti e rocce granitiche, con intersezione di sabbia grossolana e argilla. L’altra concentrazione di elementi quali potassio, magnesio, fluoro e fosforo contribuisce a conferire ai vini un carattere particolarmente minerale e definito. La versione 2013 ha un residuo zuccherino di 20 g/l e un’acidità pari al 9,2%. A renderne più vivo il ricordo contribuisce Space Oddity di David Bowie (Space Oddity, 1969).
Sollecitata da quest’ultimo vino, la memoria rimane sintonizzata su un altro capolavoro assaggiato durante il medesimo viaggio. Ancora un vino con residuo zuccherino, ancora un Riesling, ma questa volta scovato lungo le sponde “moselliane” del fiume Saar, in Germania: il RIESLING AUSLESE RAUSCH “GK” 2010 di Zilliken.
Herr Hanno Zilliken è uomo dall’aspetto canuto e dal portamento aristocratico. La determinazione del suo sguardo incarna la fierezza di una dinastia che si appresta, con la figlia Dorothee, ad accogliere l’undicesima generazione. Una storia legata almeno dal 1742 ai più prestigiosi vigneti di Saarburg e Ockfen, lungo le sponde ondulate del fiume Saar, uno dei principali affluenti della Mosella. Il liquido onirico che non riesco a dimenticare proviene dal Rausch di Saarburg, un vigneto di una ventina di ettari, la metà dei quali in possesso della famiglia Zilliken dalla notte dei tempi. Una porzione di vigneto di circa quattro ettari ospita piante con un'età compresa tra i 50 e 130 anni, mentre nella restante porzione convivono piante con un’età media di 20/30 anni. Il vigneto spazia dai 150 ai 300 metri sul livello del mare, con un’esposizione che gira da sud-ovest a sud-est nell’estremità orientale del “Cru”. Il terreno è composto da ardesia blu e rossastra, alternata a rocce vulcaniche e terra rossa. Un terreno che produce vini di particolare finezza, caratterizzati da note di lime, camomilla, menta e un'elegante mineralità idrocarburica. La versione 2010 di questo “Goldkapsel” presenta un residuo zuccherino di 150 g/l e un’acidità pari al 12,7%. In sottofondo Rocket Queen dei Guns N’ Roses (Appetite For Destruction, 1987).
Il “flashback” successivo mi riporta alle Langhe, la Terra che ho maggiormente “battuto” durante l’anno passato. Contrariamente a quello che io stesso avrei potuto ipotizzare, il vino che si è materializzato nella mia mente non è né un Barolo, né un Barbaresco (almeno non ufficialmente), ma il croccante e saporito LANGHE NEBBIOLO 2013 di Maria Teresa Mascarello. Un vino dalla beva inarrestabile.
Bartolo Mascarello non è solo il nume tutelare della prima generazione di vignaioli di Langa, è anche il custode di una tradizione che vuole il Barolo essere un vino di assemblaggio di nebbioli provenienti da più menzioni, in contrasto con il processo di “borgognizzazione” che è dilagato sul finire degli anni Settanta. Oggi questo ruolo si perpetua per mano di Maria Teresa, figlia di Bartolo, che è riuscita nella difficile opera di rinvigorire ulteriormente il blasone di questa mitologica cantina. L’azienda continua a mantenere immutato il proprio assetto, con cinque ettari vitati di proprietà (4 nel comune di Barolo e 1 a La Morra), dai quali vengono prodotte ogni anno 30/35.000 bottiglie. Il solo Barolo firmato - e conteso ogni anno da appassionati e clienti di tutto il mondo – continua a essere il risultato dell’assemblaggio di 4 vigne: Cannubi, San Lorenzo, Ruè, nel comune di Barolo, e le Rocche dell’Annunziata a La Morra. Con la versione 2011 questo Barolo è riuscito a superare persino quello che si riteneva essere insuperabile. Un vino che sancisce quello che ritengo essere un netto miglioramento stilistico apportato da Maria Teresa ai vini di famiglia. Teoria sottolineata anche dallo splendido Langhe Nebbiolo 2013, nato per il primo anno da una parcella affittata a San Rocco Seno d’Elvio. Un vino il cui solo pensiero stimola la sete. L’ascolto è quello di Street Spirit dei Radiohead (The Bends, 1995).
Nebbiolo chiama nebbiolo e, oramai a pochi chilometri da casa, la mente rievoca un Barolo assaggiato con la preziosa compagnia dell’amico Francesco Falcone: il Bricco Rocche che la famiglia Ceretto ha ottenuto dall’annata 1985, un millesimo che continua a regalare capolavori anche oltre la soglia dei trent’anni.
Il Bricco Rocche è la più piccola menzione (MGA) del comune di Castiglione Falletto, appena 1,46 ettari (di cui 1,22 vitati a nebbiolo da Barolo) in monopolio della famiglia Ceretto. Una vigna che impreziosisce un patrimonio viticolo invidiabile, che conta porzioni in menzioni del calibro di Brunate, Cannubi San Lorenzo, Prapò e Bricco Asili. L’impianto nel Bricco Rocche risale al 1978, mentre la prima annata prodotta al 1982. Questo vigneto si trova tra le Rocche di Castiglione e il Villero, nel punto più alto e prestigioso di quella striscia vitata conosciuta in passato come Serra di Castiglione. Siamo ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 365 m/slm, con un’esposizione che gira da sud-ovest a sud-est. La matrice geologica dominante è rappresentata dalle Arenarie di Diano. Con il Bricco Rocche Bruno e Marcello Ceretto hanno coronato il sogno di avere dei piccoli “chateaux” focalizzati sui “Grand Cru” della Langhe, uno a Barbaresco, nel Bricco Asili, e uno per l’appunto a Castiglione Falletto, nel Bricco Rocche. La guida tecnica, dal 2003, è nelle mani di Alessandro Ceretto, che ha anche intrapreso un percorso di avvicinamento alla biodinamica, arrivando a convertire in “bio” i circa 20 ettari (sui 160 totali in possesso dell’azienda) dedicati alla produzione di Barolo e Barbaresco. A ritmarne il ricordo c’è Rearviewmirror dei Pearl Jam (Vs - o “Five Against All” per i fans accaniti - 1993).