CINQUE TERRE: DENOMINAZIONE, TERRITORIO E PANORAMICA DEI VINI
di FILIPPO APOLLINARI - 12 maggio 2014
Non mi era mai successo di lasciare un racconto a macerare così a lungo nella penna.
Ho visitato le Cinque Terre l’autunno scorso e per tutto questo tempo ho subìto l’irrequietezza di quei ricordi, che ho stentato a rimettere in ordine, che ho faticato a raccontare. Ora, finalmente, l’inchiostro scorre, liberatosi dall’immobilismo che ancora avvolge questa terra e che in parte ho sentito mio.
La prima impressione che ho avuto, arrivando alle Cinque terre, è stata quella di una viticoltura sospesa, rassegnata alle asperità di un paesaggio estremo, selvaggio, arcaico.
Un paesaggio conteso tra il mare e una macchia mediterranea vorace, a stento trattenuta dal lavoro logorante dei vignaioli. Nei giorni successivi all’arrivo, trascorsi tra vigne e produttori, non ho potuto fare altro che rendermi conto di quanto vicina alla realtà fosse stata quella prima immagine che si era impressa nella mente, con il pensiero che è tornato a quanto scritto da Veronelli nell’opera dedicata “Alla ricerca dei vini sconosciuti”, pubblicata come supplemento al numero 231 di Panorama del 1970: “Notissimi, certo, i vini delle Cinque Terre; ignoti, dico io, per secolari commerci”.
A distanza di oltre quarant’anni da queste parole, i vini delle Cinque Terre rimangono una flebile ombra nel bagliore dell’enologia moderna, i cui ritmi sono spesso dettati da equilibri economici che qui non hanno possibilità di resistere.
Anche per questo motivo, oltre alla convinzione di un notevole potenziale inespresso, ho realizzato questo speciale sulla doc “Cinque Terre”, con una panoramica sui vini che, non con poche difficoltà, potete trovare attualmente in commercio.
IL TERRITORIO E LA VITICOLTURA
Siamo in Liguria, nell’estremità orientale della regione, in un paesaggio costiero in cui la viticoltura si arrampica dal mare fino all’alta collina, avvolgendo i cinque piccoli borghi medioevali che danno vita a questo territorio: Riomaggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza e Monterosso.
Qui il paesaggio si presenta come una successione continua di terrazzamenti, ciascuno dei quali costituisce un gradino della suggestiva scalinata che occupa i 14 km di costa del comprensorio, in una fascia altimetrica media che varia dai 30 ai 600 m/slm, con pendenze che superano agilmente il 50%.
La possibilità di raggiungere molti siti esclusivamente via mare o con uno dei cinquanta trenini a cremagliera che corrono lungo i terrazzamenti, rende limpida l’immagine di un territorio estremo.
I terrazzamenti sono sorretti da muretti a secco, rigorosamente privi di malta, che si snodano, in un percorso senza soluzione di continuità, per quasi 7.000 km. Questa ragnatela di arcaica edilizia costituisce un naturale sistema di drenaggio dell’acqua piovana, assorbita e guidata a valle attraverso il muro senza danneggiarlo, a salvaguardia di un paesaggio unico, dichiarato nel 1997 “patrimonio mondiale dell’umanità”, ma costantemente posto sotto pressione dai rischi di un’erosione violenta. Una spada di Damocle che negli ultimi anni si è fatta ancora più affilata a causa del crescente abbandono di quella che si presenta come una viticoltura “eroica” e antieconomica, spesso vissuta come un “dopo lavoro” o a livello hobbistico.
Una tendenza di lungo corso, che ha visto i 1400 ettari vitati del dopo guerra ridursi negli ultimi anni a meno di un centinaio. Questo disinteresse sta causando conseguenze drammatiche, non solo e non tanto per la viticoltura, ma, ciò che più conta, per la sopravvivenza del territorio stesso. La scarsa manutenzione dei muretti, non più ripristinati, in aggiunta alla perdita della funzione bloccante dell’apparato radicale della vite, stanno pregiudicando irrimediabilmente la stabilità geologica del terreno, con risultati potenzialmente nefasti per i centri abitati, come testimoniato dalla frana che nell’ottobre del 2011 ha colpito il cuore di Monterosso e Vernazza, due località che ancora oggi mostrano le cicatrici di quanto accaduto.
L’estremo frazionamento delle proprietà poderali, per le quali l’unità di misura più idonea è costituita in molti casi dal numero di piante possedute, piuttosto che dalle are, si giustifica con la pagina bianca legata alla Mezzadria, una struttura agraria che qui non si è mai propagata. Questa parcellizzazione, associata a un rapporto demotivante tra ore di lavoro e remunerazione, sono le cause principali dello scarso ricambio generazionale che ha coinvolto questa denominazione negli ultimi decenni.
Solo con la recente introduzione del sistema di allevamento a spalliera, con potatura a guyot, si è arrivati ad un alleggerimento del lavoro, che ha spronato una classe più giovane a riprendere in mano le vigne di famiglia, abbassando la media anagrafica del comparto produttivo che, nel caso degli associati alla cantina “Cooperativa Viticoltori delle Cinque Terre”, si aggira tutt’ora sui 70-75 anni.
Il sistema di allevamento a spalliera sta progressivamente sostituendo la tradizionale “pergola bassa”, in cui l’apparato fogliare, a copertura dei grappoli, si sviluppa su una struttura che dall’estremità del terrazzamento - ad un’altezza di 50-60 cm - arriva fino al muretto sovrastante, in una serie di strette gallerie che evocano alla mente i “caruggi” raccontati in musica da Fabrizio De Andrè.
IL DISCIPLINARE E LA BASE AMPELOGRAFICA
Come sancito dal disciplinare approvato nel 1973 (un anno dopo rispetto al Rossese di Dolceacqua, il primo vino ligure a ricevere la tutela), la zona di produzione delle uve destinate ai vini Cinque Terre “ricade nella provincia della Spezia e comprende i terreni vocati alla qualità degli interi comuni di Riomaggiore, Vernazza e Monterosso, nonché parte del territorio del comune di La Spezia, denominato Tramonti di Biassa e Tramonti di Campiglia…”.
Una provincia, tre comuni (più l’appendice di La Spezia) e cinque borghi medioevali: Riomaggiore, Manarola, Corniglia, Vernazza e Monterosso al Mare, con Manarola che costituisce una frazione del comune di Riomaggiore e Corniglia una frazione del comune di Vernazza.
All’interno dello stesso articolo (n.2) il disciplinare identifica anche tre sottozone in cui il vino Cinque Terre può essere declinato (Costa de Sera a Riomaggiore, Costa de Posa a Volastra, Costa de Campu a Manarola), sulle quali, tuttavia, risulta difficile uno studio organolettico approfondito a causa dell’esiguo numero di versioni prodotte.
La base ampelografica della denominazione prevede l’utilizzo di bosco, per almeno un 40%, di vermentino e albarola, congiuntamente o singolarmente, fino ad un massimo del 40% e di vitigni complementari, iscritti nel Registro Nazionale delle varietà di vite per uve da vino, non oltre il 20%. Il bosco è il protagonista principale della denominazione, una varietà dalle origini incerte, le cui tracce risalgono solamente al periodo post-fillossera, durante il quale la viticoltura locale si è completamente azzerata. E’ una varietà produttiva e dal grappolo spargolo, con acini dalla buccia resistente, a cui si deve la parte strutturale della tipologia. Dal punto di vista organolettico è una varietà rustica che, se portata a piena maturazione, riflette al meglio l’anima mediterranea di questi vini. Al suo fianco vermentino e albarola, con la prima varietà che sembra veicolare al meglio i tratti marini e salmastri del Tirreno e la seconda che viene di norma coltivata a quote più elevate, con il compito di rendere più vibrante un quadro che non vive certo di acidità dirompenti.
I NUMERI DEL COMPARTO PRODUTTIVO E QUALCHE CONSIDERAZIONE
La panoramica che segue, coinvolge tutti i vini che mi è stato possibile reperire nei giorni della permanenza in loco, inerenti esclusivamente la denominazione “Cinque Terre”.
La scelta di non includere in questo speciale anche il “Cinque Terre Sciacchetrà”, il passito virtuale del comprensorio, segue la volontà di concentrarsi sulla sola tipologia che può contribuire all’affermazione di questo territorio al di fuori di un contesto turistico. I 136,7 ettolitri di vino “Cinque terre Sciacchetrà” e i 1985,0 ettolitri di vino “Cinque Terre”, registrati nel 2012, sono parametri che lasciano poco spazio a interpretazioni differenti. Numeri esigui, che nascono dai 58,8 ettari rivendicati nel 2012 per la denominazione di origine e che diventano ancora più irrisori se analizzati al netto dei circa 1.100 ettolitri (1300 se consideriamo anche il passito) in mano all’efficiente cantina “Cooperativa Viticoltori delle Cinque Terre”, il cui organigramma vanta la presenza di 220 soci viticoltori, che conferiscono le uve provenienti da 46 ettari.
Quello che rimane va spartito tra i 25 produttori all’origine, vinificatori-imbottigliatori, che si presentano sul mercato più o meno costantemente. Non fa statistica la manciata di ettari destinati a uve a bacca rossa, non rivendicabili per la doc, o quelli a bacca bianca volutamente non rivendicate.
Venendo al responso del bicchiere, i risultati lasciano spazio (e impongono) notevoli margini di crescita. L’assaggio ha dimostrato l’assenza di un’identità comune, con un numero considerevole di versioni che possono essere relegate a un’accademica, in qualche caso anche sbiadita, esecuzione enologica. Eppure non tutto è da archiviare. No, perché anche nelle versioni più asettiche, il territorio sembra rivelare una personalità autoritaria, che diventa straripante nelle versioni più coraggiose e sentite. E’ in queste che ritrovo l’immagine più edificante delle Cinque Terre, espressa dall’irrequieto punto di incontro tra il mare sottostante e la macchia mediterranea che vigila dall’alto.
Quando c’è questa energia allora si riesce anche a soprassedere a eventuali vizi di forma, naturale conseguenza di un orgoglio viticolo ancora sperimentale, che necessita rispetto e supporto.
Un ringraziamento sentito va a Matteo Bonanini, presidente della cantina “Cooperativa Viticoltori delle Cinque Terre”, e all’ufficio agrario della camera di commercio di La Spezia, nelle persone di Franca Passoni e Sara Rabà.