FONTALLORO IN UN QUARTO DI SECOLO, TRAIETTORIE DI UN GRANDE SANGIOVESE TOSCANO
di FILIPPO APOLLINARI - 07 gennaio 2019
“L’Italia è un paese di contemporanei, senza antenati né posteri, perché senza memoria.” (Ugo Ojetti, pensiero estrapolato da un’intervista a Indro Montanelli).
Mi piace pensare all’esperienza come ad argilla che si plasma ogni giorno, segnata dalla pressione delle nostre scelte, dalle impronte nei luoghi e dalle parole assimilate negli incontri lungo il nostro percorso; incontri che sfumano senza incidere, incontri che aggiungono peso a una materia in divenire e, ancora, incontri che ne spostano il baricentro. Quelli con Giuseppe Mazzocolin, illuminato régisseur della Fattoria di Felsina, hanno sempre contribuito a riportare la forma ad una maggiore simmetria.
“In degustazione: 1990, 1994, 1995, 1998, 1999, 2001, 2003, 2004, 2006, 2007, 2008, 2009, 2010, 2015.”
Incontrai per la prima volta Giuseppe Mazzocolin nel marzo del 2006. Fu una specie di folgorazione di cui serbo un ricordo nitido, congelato dal freddo pungente di una rigida mattina d’inizio primavera. La voce pacata dell’uomo, il passo mite dei suoi ragionamenti, la sua indole paterna, scaldarono la foresteria di Felsina come la fiamma di un grande camino.
Parlammo del suo passato da docente e della virata dal mondo accademico a quello agricolo, in prima linea nella consacrazione dell’azienda del suocero Domenico Poggiali, imprenditore ravennate che nel 1966 acquistò Felsina come meta di ristoro.
Così come dodici anni fa, anche lo scorso autunno, in un anonimo bar all’ombra della Certosa di Galluzzo, Giuseppe ha condiviso il ricordo di quelle che considera le tappe fondamentali del suo affascinante viaggio. Un racconto cucito attorno alla vita, al vino, alle impronte di una terra che lo ha adottato.
Incalzandolo con garbo, l’ho ascoltato rivivere l’amicizia con Luigi Veronelli e poi raccontare la nascita di Rancia e Fontalloro, due vini pensati e concepiti con passione, e nel tempo divenuti grandi classici chiantigiani.
Al Fontalloro, un vino che ha segnato le prime tappe della mia formazione, ho dedicato una verticale di quattordici annate, raccogliendo nei calici ben venticinque anni della sua storia. Che è anche la storia del nuovo vino toscano e italiano. E un po’ anche la mia.
Fontalloro e Rancia nascono nella scia di una presa di coscienza del comparto produttivo del Chianti Classico, che a cavallo degli anni Ottanta ricerca modelli enologici più aggiornati e una sinergia più forte tra territorio e sangiovese.
Un legame che oggi appare scontato, ma al tempo ostacolato anche dallo stesso disciplinare, che prima delle modifiche del 2002 non permetteva l’utilizzo del sangiovese in purezza (fino al 1984 tagliato perfino con uve bianche), costringendo così un manipolo di produttori visionari a non rivendicare la denominazione per i propri vini o, ancora peggio, a farlo illegalmente.
Quest’ultimo è il caso del Chianti Classico Riserva Il Poggio del Castello di Monsanto di Fabrizio Bianchi, cru nato nel 1962 e ottenuto con uve 100% sangiovese dalla vendemmia 1968. A fianco de Il Poggio tanti altri ambasciatori di quegli anni meritano una citazione: il Vigorello di Enzo Morganti e Giulio Gambelli (battezzato nello stesso anno), Le Pergole Torte di Montevertine a partire dal 1977 e, a seguire, I Sodi di San Niccolò di Castellare di Castellina, il Flaccianello della Pieve di Fontodi, il Percarlo di San Giusto a Rentennano e il Cepparello di Isole e Olena.
Una schiera di vini che parlano di Chianti Classico con un linguaggio finalmente depurato dal superfluo; un linguaggio tanto condiviso quanto personale, talvolta più materico, talvolta più trasparente, in ossequio del territorio di provenienza.
Vini dissidenti, tutt’altro che apolidi, che affrontano il mercato mondiale con nuova linfa, lottando anche contro le “etichette” della stampa, che per questi vini innovativi conia uno dei neologismi più odiosi tra quelli mai accostati al vino: supertuscan, idioma anglofono e asettico, utilizzato per identificare i rossi toscani che in questo momento storico non rientrano in specifiche denominazioni di origine, a prescindere dal territorio e dai vitigni di provenienza. Un termine oggi divenuto fortunatamente anacronistico, come del resto lo sono i vini incapaci di raccontare il proprio luogo d’origine.
È in questo contesto di cambiamento, in questo focolaio di idee (qualche volta anche abortite, ma in ogni caso vitali) che nel 1983 vedono la luce Rancia e Fontalloro, le due declinazioni di sangiovese più ambiziose della Fattoria di Felsina. Il primo interamente ottenuto dall’omonimo vigneto del comune di Castelnuovo Berardenga nel Chianti Classico, e il secondo originato dall’assemblaggio di tre vigne: Fontalloro (nel comprensorio di Poggio al Sole, all’interno dei confini del Chianti Classico), Casalino e Arcidossino (nel distretto dei Colli Senesi).
Un duplice esordio che sancisce un successo immediato di critica e consumatori, che riconoscono in questi vini le due anime di Felsina, quella più boschiva del Rancia e quella più mediterranea del Fontalloro. Differenze esaltate dai suoli delle vigne, con il Rancia che sorge su galestro (soprattutto nella parte alta) e alberese, e con il Fontalloro che si sviluppa lungo il percorso erosivo del “macigno” verso le crete.
Così, se Rancia è un Sangiovese che vive di chiaroscuri, Fontalloro splende di una luce senza filtri che penetra dalle morbide crete senesi, dove gli spigoli quasi montani del versante fiorentino sono solo un ricordo e dove il peso delle argille veste i vini di maggiore materia.
È proprio quest’anima mediterranea che mi ha spinto a instaurare con il Fontalloro un rapporto privilegiato. Il Fontalloro è, in tal senso, un rosso unico, testimone di un confine geografico e geologico, amante e confidente delle annate luminose, in grado di firmare alcune delle versioni più seducenti e carnose del Sangiovese di Toscana degli ultimi trent’anni.
Versioni che si muovono a proprio agio attraverso decenni di grande cambiamento, di cui il Fontalloro si conferma un lettore autorevole, preservando coerenza stilistica e timbrica originaria. Dalle versioni più avventurose e contingentate degli anni Ottanta, a quelle della consacrazione dei Novanta, fino alla maggiore maturità e tiratura dei Duemila e alla ricerca di ariosità delle edizioni più recenti sotto la guida di Giovanni Poggiali, nipote di Giuseppe e figlio del fondatore.
Produzione attuale 40.000 bottiglie.
Nelle righe che seguono lascio una testimonianza dei calici e qualche nota legata all’andamento climatico.