IL MIO CARO AMICO BRETTANOMYCES!
di FILIPPO APOLLINARI - 26 aprile 2020
Un argomento che da sempre suscita accese discussioni tra degustatori e vignaioli è il Brettanomyces, un genere di lievito presente in natura il cui insediamento in cantina può essere responsabile di una “metamorfosi selvatica” del profilo aromatico e gustativo del vino.
In questi giorni di quarantena ho avuto modo di confrontarmi sull'argomento con alcuni vignaioli e riportare alla luce testimonianze raccolte durante interviste più datate. Come anticipato, le posizioni sul "Brett" possono essere molto diverse: dalla felice accoglienza di Giulio Armani (deus ex machina de La Stoppa e titolare dell'azienda Denavolo), alla timorosa convivenza di Giovanna Morganti, fino a vere e proprie dichiarazioni di guerra.
La materia è ampia, complessa e in divenire. Nelle righe che seguono c'è un tentativo di rendere più comprensibile l'argomento con un linguaggio semplice.
I lieviti appartenenti al genere Brettanomyces/Dekkera sono quelli maggiormente diffusi nelle bevande alcoliche dopo il Saccharomyces cerevisiae, il principale responsabile della fermentazione alcolica. Quella tra Brettanomyces e Dekkera è una distinzione fatta esclusivamente in letteratura per descriverne la differenza di forma.*
Trovare la forma Dekkera in natura è molto raro e trovarla nel vino è praticamente impossibile.
Sebbene appartengono al genere Brettanomyces/Dekkera cinque specie, quella più diffusa nel vino è il Brettanomyces bruxellensis, seguita a notevole distanza dal Brettanomyces anomalus.
Il nome Brettanomyces risale al 1904, quando questo fungo venne identificato nel laboratorio dell’azienda birraria Carlsberg da N.H. Claussen durante alcuni studi sulle birre britanniche ale. Claussen dimostrò, sperimentalmente, che il Brettanomyces era in grado di attivare fermentazioni secondarie nelle botti e come tale era il responsabile del particolare carattere che potevano assumere queste birre. Il nome, di origine greca, significa “fungo britannico”. Ancora oggi i produttori di birra possono acquistare ceppi di lieviti Brettanomyces bruxellensis per produrre birre con caratteristiche vinose, seguendo lo stile belga ed inglese.
IL BRETTANOMYCES NELLA PRODUZIONE ENOLOGICA
Fino a qualche anno fa pronunciare la parola Brettanomyces ad un produttore o ad un enologo significava innescare discussioni con poche possibilità di successo. Oggi il confronto è più aperto, principalmente in termini etici e solo secondariamente in termini di complessità e personalità che alcuni sentori riconducibili a questo lievito possono conferire ad un vino.
Il Brettanomyces è ubiquitario, si trova nei terreni, nei vigneti e sull’uva, che diventa un vettore per il suo ingresso in cantina, dove può colonizzare le superfici e i vasi vinari, in particolare modo quelli porosi, come il legno delle botti o il cemento nudo. Si nutre di zucchero e, contrariamente ai Saccharomyces cerevisiae, anche di alcool, motivo per il quale non ha problemi a insediarsi e moltiplicarsi nel vino.
Quello che sembra certo è che questo lievito trovi un ambiente particolarmente favorevole per la proliferazione nei pH alti, prediligendo quindi quei vitigni e quelle latitudini (generalmente più mediterranee) che portano in dote l’innalzamento di questo parametro.
È possibile anche ipotizzare che il mutare delle condizioni agroambientali (la maggiore frequenza di annate calde, a cui si deve un conseguente innalzamento dei pH, e la diminuzione dell’utilizzo di chimica in vigna) abbia profonde influenze sulla composizione dei mosti, a vantaggio della presenza di una variegata flora microbica e quindi anche di Brettanomyces. Il progressivo aumento di pH dei mosti, contestualmente alla riduzione di carenze nutrizionali (sostante azotate), induce una minore selezione/competizione della microflora indigena e complica il normale decorso della fermentazione alcolica, lasciando spazio allo sviluppo di forme microbiche alternative.
È possibile gestire la contaminazione del “Brett”? Si, anche se la presenza di Brettanomyces comporta sempre un rischio. Tuttavia, come spesso succede in materia vinicola, trovare quello che può apparire come un “giusto” equilibrio olfattivo e sensoriale in un vino “brettato” dipende in parte (non totalmente) dalle capacità e dalla sensibilità del vignaiolo. In questo senso, un vino che ha meno intensità (magari con una struttura più debole e minore estratto) più difficilmente potrà essere in equilibrio con una presenza di Brettanomyces. Diverso è per vini di una struttura più solida dove, entro certi livelli, il “Brett” può rappresentare un compendio al corredo aromatico direttamente riconducibile al varietale e al territorio.
A questo proposito, proprio il rapporto tra Brettanomyces e corredo aromatico riconducibile al territorio rappresenta un motivo di scontro tra chi sostiene che tutti i lieviti presenti sull’uva appartengano a questo microcosmo e chi, invece, è più selettivo. Buona parte del dibattito ruota attorno a questo aspetto, perché in fondo il "Brett" è presente in natura esattamente come lo è il Saccaromyces cerevisiae ed elidere il suo intervento è comunque una scelta volontaria, motivo per il quale la sottile linea tra "naturalezza" e “interventismo” qui si assottiglia ulteriormente.
Fondamentale per il controllo di questo lievito è l’utilizzo della anidride solforosa (SO2), che ha un effetto fungistatico (non uccide il lievito, ma ne limita l’attività fisiologica), il che si traduce con il tenere sotto controllo la frazione di solforosa molecolare che è quella realmente efficace per il contenimento dello sviluppo del “Brett”.
Non di minore importanza è la gestione dei travasi, in quanto il peso della sua molecola tende a trascinarlo sul fondo a contatto con le fecce di affinamento. Alcuni studi hanno anche dimostrato che il chitosano, un polimero prodotto da un fungo antagonista del “Brett”, abbia la capacità di inibire la sua attività. Anche la temperatura degli ambienti in cui sosta il vino gioca un ruolo importante, in quanto la crescita di questo lievito è più veloce sopra i 20°C e si inibisce sotto gli 8°C. Infine, anche la filtrazione può ridurre la carica del “Brett”.
La sanificazione di materiali particolarmente porosi come le botti in legno risulta molto complicata. Il vapore, che è il sistema più ecologico per il controllo della pulizia dei vasi vinari, può essere utilizzato anche nelle botti in legno, ma con le dovute precauzioni. Tra le sostanze poco invasive, ma solo parzialmente risolutive c’è anche l’ozono. Le alternative più efficaci sono anche inevitabilmente più invasive da un punto di vista di salubrità, come detergenti a base di un mix di idrossido di potassio e carbonato di potassio.
In quale fase un vino è maggiormente esposto all’attività del “Brett”? Il Brettanomyces è un lievito con scarsa attitudine fermentativa, non è competitivo rispetto al Saccharomyces cerevisiae, per questo la sua attività microbiologica comincia a manifestarsi quando la fermentazione alcolica volge al termine, ovvero quando il cerevisiae comincia a morire, fasi in cui generalmente la protezione della SO2 è più blanda.
LA PERCEZIONE NEL CALICE DEL “BRETT”
Non tutti gli odori anomali dovuti al “Brett” vengono percepiti dai bevitori. Alcuni di noi hanno un livello di anosmia (incapacità di odorare) che non consente di percepire alcune deviazioni. La soglia di percezione di profumi e odori è assolutamente personale.
Personalmente ho bevuto vini "brettati" meravigliosi, facilmente riconducibili al territorio di appartenenza quando assaggiati a etichette coperte. Ma ciò è successo laddove l'interferenza (i puristi mi perdoneranno il termine) era solo un compendio. Questo perché è innegabile che le deviazioni aromatiche dovute al "Brett" portino caratteri comuni a prescindere dal territorio in cui esso dimori, con una conseguente tendenza all'omologazione attraverso la copertura del tratteggio più delicato del vino. Quindi? Ecco che ancora una volta la soluzione sembra essere nella sensibilità individuale.
I sentori principali del Brettanomyces, generalmente riconosciuti come difetto del vino:
• Chiodi di garofano, affumicatura (soprattutto nei bianchi) > 4etil-guaiacolo
• Stalla (anche sudore di cavallo) > 4etil-fenolo
• Formaggio rancido, sudore > acido isovalerico
La presenza di “Brett” può essere anche percepita in fase di assaggio, dove generalmente coincide con una sensazione di maggiore asciuttezza del tannino, e in fase retro-olfattiva, dove può accentuare note ossidative.
Per concludere, un breve accenno alla complessità del fenomeno “Brett” nel vino quando questo lievito si combina con altre molecole: Il “sentore di topo”, di cerotto, o la cosiddetta buccia del salame, per passare all’odore conosciuto anche come Pop-Corn (in una chiave più eufemistica) sono solitamente attribuiti alla combinazione del Brettanomyces bruxellensis con alcuni batteri Lactobacillus (batteri lattici).
*BREVE APPROFONDIMENTO
La antica nomenclatura dei funghi (tra cui i lieviti) spesso prevedeva un nome differente quando il fungo (micelio) si manifestava come prodotto della riproduzione sessuata (la cosiddetta forma perfetta: Dekkera, nel nostro caso specifico), rispetto al prodotto della moltiplicazione, o clonazione (Brettanomyces, sempre nel nostro caso), che è la forma più diffusa perché è quella normalmente più frequente in condizioni ambientali ordinarie. Questa antica nomenclatura differenziava i nomi perché visivamente al microscopio queste due forme appaiono diverse seppur appartenenti alla medesima specie.
Il trovare l’una o l’altra forma in natura dipende dal tipo di substrato presente, ovvero dal tipo di condizioni ambientali e dalla (in)disponibilità di cibo. Laddove c’è umidità, un range di temperatura ideale, zucchero e/o alcool, il nostro lievito si presenterà sempre nella la forma Brettanomyces (es. buccia dell’uva, mosto, vino, feccia, doga di legno che ha ospitato vino); mentre in condizioni ostili e in assenza di cibo il fungo utilizza le sue ultime energie per cercare un partner, riprodursi e generare una forma sessuata (o perfetta) svernante, chiamata nel nostro caso Dekkera (es. tralcio, muro o pavimento della cantina in periodi di non fermentazione).
In questi giorni di quarantena ho avuto modo di confrontarmi sull'argomento con alcuni vignaioli e riportare alla luce testimonianze raccolte durante interviste più datate. Come anticipato, le posizioni sul "Brett" possono essere molto diverse: dalla felice accoglienza di Giulio Armani (deus ex machina de La Stoppa e titolare dell'azienda Denavolo), alla timorosa convivenza di Giovanna Morganti, fino a vere e proprie dichiarazioni di guerra.
La materia è ampia, complessa e in divenire. Nelle righe che seguono c'è un tentativo di rendere più comprensibile l'argomento con un linguaggio semplice.
I lieviti appartenenti al genere Brettanomyces/Dekkera sono quelli maggiormente diffusi nelle bevande alcoliche dopo il Saccharomyces cerevisiae, il principale responsabile della fermentazione alcolica. Quella tra Brettanomyces e Dekkera è una distinzione fatta esclusivamente in letteratura per descriverne la differenza di forma.*
Trovare la forma Dekkera in natura è molto raro e trovarla nel vino è praticamente impossibile.
Sebbene appartengono al genere Brettanomyces/Dekkera cinque specie, quella più diffusa nel vino è il Brettanomyces bruxellensis, seguita a notevole distanza dal Brettanomyces anomalus.
Il nome Brettanomyces risale al 1904, quando questo fungo venne identificato nel laboratorio dell’azienda birraria Carlsberg da N.H. Claussen durante alcuni studi sulle birre britanniche ale. Claussen dimostrò, sperimentalmente, che il Brettanomyces era in grado di attivare fermentazioni secondarie nelle botti e come tale era il responsabile del particolare carattere che potevano assumere queste birre. Il nome, di origine greca, significa “fungo britannico”. Ancora oggi i produttori di birra possono acquistare ceppi di lieviti Brettanomyces bruxellensis per produrre birre con caratteristiche vinose, seguendo lo stile belga ed inglese.
IL BRETTANOMYCES NELLA PRODUZIONE ENOLOGICA
Fino a qualche anno fa pronunciare la parola Brettanomyces ad un produttore o ad un enologo significava innescare discussioni con poche possibilità di successo. Oggi il confronto è più aperto, principalmente in termini etici e solo secondariamente in termini di complessità e personalità che alcuni sentori riconducibili a questo lievito possono conferire ad un vino.
Il Brettanomyces è ubiquitario, si trova nei terreni, nei vigneti e sull’uva, che diventa un vettore per il suo ingresso in cantina, dove può colonizzare le superfici e i vasi vinari, in particolare modo quelli porosi, come il legno delle botti o il cemento nudo. Si nutre di zucchero e, contrariamente ai Saccharomyces cerevisiae, anche di alcool, motivo per il quale non ha problemi a insediarsi e moltiplicarsi nel vino.
Quello che sembra certo è che questo lievito trovi un ambiente particolarmente favorevole per la proliferazione nei pH alti, prediligendo quindi quei vitigni e quelle latitudini (generalmente più mediterranee) che portano in dote l’innalzamento di questo parametro.
È possibile anche ipotizzare che il mutare delle condizioni agroambientali (la maggiore frequenza di annate calde, a cui si deve un conseguente innalzamento dei pH, e la diminuzione dell’utilizzo di chimica in vigna) abbia profonde influenze sulla composizione dei mosti, a vantaggio della presenza di una variegata flora microbica e quindi anche di Brettanomyces. Il progressivo aumento di pH dei mosti, contestualmente alla riduzione di carenze nutrizionali (sostante azotate), induce una minore selezione/competizione della microflora indigena e complica il normale decorso della fermentazione alcolica, lasciando spazio allo sviluppo di forme microbiche alternative.
È possibile gestire la contaminazione del “Brett”? Si, anche se la presenza di Brettanomyces comporta sempre un rischio. Tuttavia, come spesso succede in materia vinicola, trovare quello che può apparire come un “giusto” equilibrio olfattivo e sensoriale in un vino “brettato” dipende in parte (non totalmente) dalle capacità e dalla sensibilità del vignaiolo. In questo senso, un vino che ha meno intensità (magari con una struttura più debole e minore estratto) più difficilmente potrà essere in equilibrio con una presenza di Brettanomyces. Diverso è per vini di una struttura più solida dove, entro certi livelli, il “Brett” può rappresentare un compendio al corredo aromatico direttamente riconducibile al varietale e al territorio.
A questo proposito, proprio il rapporto tra Brettanomyces e corredo aromatico riconducibile al territorio rappresenta un motivo di scontro tra chi sostiene che tutti i lieviti presenti sull’uva appartengano a questo microcosmo e chi, invece, è più selettivo. Buona parte del dibattito ruota attorno a questo aspetto, perché in fondo il "Brett" è presente in natura esattamente come lo è il Saccaromyces cerevisiae ed elidere il suo intervento è comunque una scelta volontaria, motivo per il quale la sottile linea tra "naturalezza" e “interventismo” qui si assottiglia ulteriormente.
Fondamentale per il controllo di questo lievito è l’utilizzo della anidride solforosa (SO2), che ha un effetto fungistatico (non uccide il lievito, ma ne limita l’attività fisiologica), il che si traduce con il tenere sotto controllo la frazione di solforosa molecolare che è quella realmente efficace per il contenimento dello sviluppo del “Brett”.
Non di minore importanza è la gestione dei travasi, in quanto il peso della sua molecola tende a trascinarlo sul fondo a contatto con le fecce di affinamento. Alcuni studi hanno anche dimostrato che il chitosano, un polimero prodotto da un fungo antagonista del “Brett”, abbia la capacità di inibire la sua attività. Anche la temperatura degli ambienti in cui sosta il vino gioca un ruolo importante, in quanto la crescita di questo lievito è più veloce sopra i 20°C e si inibisce sotto gli 8°C. Infine, anche la filtrazione può ridurre la carica del “Brett”.
La sanificazione di materiali particolarmente porosi come le botti in legno risulta molto complicata. Il vapore, che è il sistema più ecologico per il controllo della pulizia dei vasi vinari, può essere utilizzato anche nelle botti in legno, ma con le dovute precauzioni. Tra le sostanze poco invasive, ma solo parzialmente risolutive c’è anche l’ozono. Le alternative più efficaci sono anche inevitabilmente più invasive da un punto di vista di salubrità, come detergenti a base di un mix di idrossido di potassio e carbonato di potassio.
In quale fase un vino è maggiormente esposto all’attività del “Brett”? Il Brettanomyces è un lievito con scarsa attitudine fermentativa, non è competitivo rispetto al Saccharomyces cerevisiae, per questo la sua attività microbiologica comincia a manifestarsi quando la fermentazione alcolica volge al termine, ovvero quando il cerevisiae comincia a morire, fasi in cui generalmente la protezione della SO2 è più blanda.
LA PERCEZIONE NEL CALICE DEL “BRETT”
Non tutti gli odori anomali dovuti al “Brett” vengono percepiti dai bevitori. Alcuni di noi hanno un livello di anosmia (incapacità di odorare) che non consente di percepire alcune deviazioni. La soglia di percezione di profumi e odori è assolutamente personale.
Personalmente ho bevuto vini "brettati" meravigliosi, facilmente riconducibili al territorio di appartenenza quando assaggiati a etichette coperte. Ma ciò è successo laddove l'interferenza (i puristi mi perdoneranno il termine) era solo un compendio. Questo perché è innegabile che le deviazioni aromatiche dovute al "Brett" portino caratteri comuni a prescindere dal territorio in cui esso dimori, con una conseguente tendenza all'omologazione attraverso la copertura del tratteggio più delicato del vino. Quindi? Ecco che ancora una volta la soluzione sembra essere nella sensibilità individuale.
I sentori principali del Brettanomyces, generalmente riconosciuti come difetto del vino:
• Chiodi di garofano, affumicatura (soprattutto nei bianchi) > 4etil-guaiacolo
• Stalla (anche sudore di cavallo) > 4etil-fenolo
• Formaggio rancido, sudore > acido isovalerico
La presenza di “Brett” può essere anche percepita in fase di assaggio, dove generalmente coincide con una sensazione di maggiore asciuttezza del tannino, e in fase retro-olfattiva, dove può accentuare note ossidative.
Per concludere, un breve accenno alla complessità del fenomeno “Brett” nel vino quando questo lievito si combina con altre molecole: Il “sentore di topo”, di cerotto, o la cosiddetta buccia del salame, per passare all’odore conosciuto anche come Pop-Corn (in una chiave più eufemistica) sono solitamente attribuiti alla combinazione del Brettanomyces bruxellensis con alcuni batteri Lactobacillus (batteri lattici).
*BREVE APPROFONDIMENTO
La antica nomenclatura dei funghi (tra cui i lieviti) spesso prevedeva un nome differente quando il fungo (micelio) si manifestava come prodotto della riproduzione sessuata (la cosiddetta forma perfetta: Dekkera, nel nostro caso specifico), rispetto al prodotto della moltiplicazione, o clonazione (Brettanomyces, sempre nel nostro caso), che è la forma più diffusa perché è quella normalmente più frequente in condizioni ambientali ordinarie. Questa antica nomenclatura differenziava i nomi perché visivamente al microscopio queste due forme appaiono diverse seppur appartenenti alla medesima specie.
Il trovare l’una o l’altra forma in natura dipende dal tipo di substrato presente, ovvero dal tipo di condizioni ambientali e dalla (in)disponibilità di cibo. Laddove c’è umidità, un range di temperatura ideale, zucchero e/o alcool, il nostro lievito si presenterà sempre nella la forma Brettanomyces (es. buccia dell’uva, mosto, vino, feccia, doga di legno che ha ospitato vino); mentre in condizioni ostili e in assenza di cibo il fungo utilizza le sue ultime energie per cercare un partner, riprodursi e generare una forma sessuata (o perfetta) svernante, chiamata nel nostro caso Dekkera (es. tralcio, muro o pavimento della cantina in periodi di non fermentazione).