IL MIO PRIMO ROMANÉE CONTÌ di FRANCESCO FALCONE
11 agosto 2014
Viaggiando sulla strada dei grandi “crus” settentrionali della Côte d’Or, si segue il muro nord del Clos Vougeot, si passa tra Les Echezeaux e Les Grands-Echezeaux e dopo qualche centinaio di metri si arriva a Vosne-Romanée, il comune viticolo della Borgogna che produce alcuni dei vini più eleganti e cari che si possano trovare in circolazione.
I sei Grand Cru di quel piccolo villaggio, così dimesso eppure così celebre - La Grande Rue, La Tâche, La Romanée, Richebourg, Romanée-Saint Vivant e Romanée-Conti (meno di 27 ettari e poco più di centomila bottiglie commercializzate) – sono minuscoli anche per la frazionatissima viticoltura della Côte de Nuits, cosa che ne spiega, almeno in parte, la rarità, la speculazione e, per stretta conseguenza, i prezzi da collezionisti.
Rarità e prezzi che toccano vertici stratosferici quando si parla di Romanée Conti, Grand Cru Monopole del Domaine eponimo. La vigna è grande poco più di diciottomila metri, un’estensione apparentemente irrisoria per i burocrati dei numeri, eppure la sua reputazione, universale, supera quella di tutti gli altri trenta Grand Cru della Côte d’Or.
Madame de Pompadour e Luigi Francesco di Borbone, principe di Contì, si contesero quel fazzoletto di terra a lungo, fino a quando quest’ultimo, nel 1760, riuscì a vincere la concorrenza della rivale. Nonostante la morte del principe sopraggiunse solamente sei anni più tardi, il suo nome venne indelebilmente accostato a questa vigna, ribattezzata Romanée Conti.
Acquistato nel 1869 dagli antenati di Aubert de Villaine, uno degli attuali titolari del Domaine (alla guida da quarant’anni), quel leggendario clos e le sue misure sono diventate oggetto di studio per i più pignoli intenditori di Borgogna, per buona parte dei produttori di tutto il mondo - che da Willamette Valley a Wellington, passando per Mazzon, vinificano l’ostico pinot nero – e per i curiosi che vogliono capire in quali condizioni nascano i 40 ettolitri (circa) di vino più celebri del pianeta.
Non ho mai visitato il Domaine de La Romanée-Conti (le loro vigne invece sì e più di una volta, come tanti del resto). In diverse occasioni, invece, ho bevuto il loro vino più raro: il battesimo fu con il 1982, che non scorderò mai più. Ne rammento ogni dettaglio nonostante siano passati sei anni: colore emulsionato, appena velato, crepuscolare eppure luminoso. Un profumo purissimo, che ricordava un infuso orientale, il peperone maturo, il tabacco, i fiori dolci e chissà cos’altro (non vi tedio). Una meraviglia la sua bocca, con i tannini impalpabili, ma di sapore e traino enormi; la sua spinta era inarrestabile, la profondità delle sensazioni abissale, le sollecitazioni non lasciavano tregua. Sublime e inarrivabile, neanche a dirlo, la persistenza, che in termini grettamente economici, vale – oggi più che mai - mille euro al minuto*, spiccioli più, spiccioli meno.
*E’ probabile che ai tempi di Luigi XIV, che ne ingoiava a cucchiai per curare la sua fistola gastrica, fosse un vino assai meno caro.
GLI ALTRI CINQUE “GRAND CRU” DI VOSNE-ROMANEE:
LA GRAND RUE (1 ha 65 a 7 ca): la vigna si presenta come una striscia di terra, mai più larga di 50 metri, che scorre al di sopra del centro abitato di Vosne Romanée, tra i mitologici climat di La Tâche e dei tre Romanée (Romanée St.Vivant, Romanée Conti e La Romanée), da cui è separata da una piccola strada di confine che sancisce anche una differenza nei terreni. Le piante, seguendo il leggero pendio, degradano dai 300 m/slm ai 260 m/slm, con un’esposizione completamente a est. I terreni, soprattutto nella parte inferiore sono meno profondi e più ricchi di argille calcaree risalenti al giurassico medio. Dal 1933 è un monopolio della famiglia Lamarche, che ne ha acquistato la proprietà dalla famiglia Liger-Belair, e, contrariamente ai pari grado del comune, è solo con il millesimo 1991 che ha raggiunto il rango di “Grand Cru”. Per il momento, il valore dei vini che nascono in questa striscia di terra non sembra essere all’altezza di quello degli altri cinque “Grand Cru” del comune.
LA TÂCHE (6 ha 6 a 20 ca): prima di diventare l’entità catastale che oggi tutti conosciamo, (monopolio del Domaine de la Romanée Conti), La Tâche è stata a lungo frazionata e suddivisa tra diversi produttori. La parcella originaria (il La Tâche propriamente detto: 1 ha 43 a 45 ca), è stata nelle mani dei Liger-Belair dal 1833 fino al 1933, quando tutti i beni di famiglia furono messi all’asta. L’acquisto di questo appezzamento da parte del DRC permise ai nuovi proprietari di renderla praticamente un corpo unico con una porzione del confinante Les Gaudichots (4 ha 62 a 75 ca), arrivando così alle sue dimensioni attuali. A completare l’opera intervennero alcuni scambi di minuscole parcelle con la famiglia Lamarche. Posta tra il Malconsorts, a sud, e La Grande Rue, a nord, La Tâche gode di una tenue inclinazione che accompagna i suoi filari dai 250 ai 300 m/slm, offrendo loro una perfetta esposizione a est, su un suolo altamente sassoso che garantisce un drenaggio ottimale. I vini che se ne ottengono, pur rispettando l’eleganza insita nel comune sui cui ricadono i suoi confini, mostra una tensione notevole, una muscolarità energica e una persistenza infinita, inebriante.
LA ROMANEE (0 ha 80 a 52 ca): questo minuscolo climat, un fazzoletto di terra che non raggiunge l’ettaro, è anche la più piccola denominazione di Francia e con ogni probabilità del mondo. E pensare che nonostante le sue modeste dimensioni questa vigna è rimasta frazionata in sei parcelle fino al XIX secolo, quando il generale Louis Liger-Belair ne acquistò l’intera proprietà e la trasformo in un corpo unico. Oggi La Romanée continua a essere un monopolio della famiglia Liger-Belair, che dal 2005 è tornata a essere anche l’unica a firmare un vino proveniente da questo climat, interrompendo un contratto d’affitto con la maison de négoce Bouchard Pere et Fils. L’appezzamento è rettangolare e rappresenta il proseguimento naturale verso est di quello del Romanée Conti, rispetto al quale presenta una maggiore pendenza (circa il 12 per cento) e un minore tenore di argilla. La roccia madre, appartenente al Baiociano e al Batoniano, dista poche decine di centimetri e apporta un notevole contributo in termini di sassi, scheletro e drenaggio.
RICHEBOURG (8 ha 03 a 45 ca): grand cru tra i più celebri di Borgogna, è composto da due lieux-dits, il Richebourg propriamente detto (5 ha 05 a 18 ca) e il Les Veroilles (2 ha 98 a 27 ca), che presenta un’esposizione appena più fresca. Osservandolo dal paese si presenta come il prolungamento verso la “Cote” del Romanée St.Vivant, con cui confina sul lato orientale. In direzione sud le sue vigne lambiscono quelle del Romanée Conti e de La Romanèe, mentre in direzione nord sanciscono la fine della costellazione dei Grand Cru” di Vosne Romanée. Il suolo, formatosi durante il Baiociano, presenta uno strato di terra vegetale sottilissimo, al di sotto del quale si nasconde uno scheletro di piccoli sassi bianchi che si alternano ad argille brune. Il nome di questa vigna compare per la prima volta nel 1512, un arco di tempo che non è riuscito a fugare i dubbi sulla corretta etimologia; tuttavia, la fonetica del nome preannuncia la ricchezza e la potenza che si ritrovano molto spesso nel calice. La proprietà è suddivisa attualmente fra 11 produttori: Domaine de la Romanée Conti (3,51 ha), Leroy (0,78 ha), Gros Frere et Soeur (0,69 ha), AF Gros (0,60 ha), Anne Gros (0,60), Thibault Liger Belair (0,55 ha), Méo-Camuzet (0,34 ha), Grivot (0,32 ha), Mongeard-Mugneret (0,31 ha), Hudelot Noellat (0,28 ha), Clos Frantin (0,07 ha).
ROMANEE SAINT VIVANT (9 ha 43 a 74 ca): il nome di questo vigneto compare per la prima volta nel 1765 e deriva dalla volontà di celebrare l’ordine dell’eponima abbazia intitolata all’evangelista St. Viventius, che nel IV secolo giunse a Vendée, sulla costa atlantica, per convertire i nativi. Le sue reliquie accompagnarono il lungo peregrinare dei monaci che ne avevano seguito l’esempio e che attorno al IX secolo approdarono nelle colline di Vergy, in Borgogna. Qui, subordinati al grande priorato di Cluny, attraverso ingenti donazioni del Duca Hugues II (1084-1183), accorparono diversi terreni allora incolti, prevalentemente in Vosne e Flagey, tra cui il “Cloux des Neuf Journaux” (3,06 ha), il “Cloux du Moytan” (1,70 ha), il “Cloux du Quatre Journaux” (1,36 ha) e il “Cloux du Cinq Journaux”. Se i primi tre appezzamenti costituiscono il cuore “storico” del Romanée St.Vivant, l’ultimo altro non è che il celeberrimo Romanée Conti, ceduto dai monaci nel 1584. L’aneddotica, supportata da alcune mappature, ha alimentato nella letteratura il pensiero che il Romanée Saint Vivant abbia raggiunto le dimensioni attuali (9,43 ha) tra il 1791 e il 1898, periodo nel quale la sua proprietà fu nelle mani della famiglia Marey-Monge. Il suolo è relativamente profondo (90cm) e ricco di gesso e argille; la pendenza è pressoché nulla e il drenaggio è più lento rispetto alla media degli altri “Grand Cru” del comune. Nonostante questo, non esistono dubbi sulla qualità assoluta dei vini che vi nascono, di finezza e profondità aromatica superiori. Il DRC, con i suoi 5,29 ettari insediati nella sezione centrale del cru, ne possiede oltre la metà, mentre madame Leroy, seconda in termini di dimensioni, si deve “accontentare” di 0,99 ettari nell’estremità nord del vigneto, vicino agli appezzamenti di J.J. Confuron (0,50 ha) e Hudelot Noellat (0,48 ha). Gli altri 6 proprietari sono i seguenti: Louis Latour (0,76 ha), Poisot per Drouhin (0,49 ha), Robert Arnoux (0,35 ha), de l’Arlot (0,25 ha), Sylvain Cathiard (0,17 ha) e Dujac (0,17 ha).
I sei Grand Cru di quel piccolo villaggio, così dimesso eppure così celebre - La Grande Rue, La Tâche, La Romanée, Richebourg, Romanée-Saint Vivant e Romanée-Conti (meno di 27 ettari e poco più di centomila bottiglie commercializzate) – sono minuscoli anche per la frazionatissima viticoltura della Côte de Nuits, cosa che ne spiega, almeno in parte, la rarità, la speculazione e, per stretta conseguenza, i prezzi da collezionisti.
Rarità e prezzi che toccano vertici stratosferici quando si parla di Romanée Conti, Grand Cru Monopole del Domaine eponimo. La vigna è grande poco più di diciottomila metri, un’estensione apparentemente irrisoria per i burocrati dei numeri, eppure la sua reputazione, universale, supera quella di tutti gli altri trenta Grand Cru della Côte d’Or.
Madame de Pompadour e Luigi Francesco di Borbone, principe di Contì, si contesero quel fazzoletto di terra a lungo, fino a quando quest’ultimo, nel 1760, riuscì a vincere la concorrenza della rivale. Nonostante la morte del principe sopraggiunse solamente sei anni più tardi, il suo nome venne indelebilmente accostato a questa vigna, ribattezzata Romanée Conti.
Acquistato nel 1869 dagli antenati di Aubert de Villaine, uno degli attuali titolari del Domaine (alla guida da quarant’anni), quel leggendario clos e le sue misure sono diventate oggetto di studio per i più pignoli intenditori di Borgogna, per buona parte dei produttori di tutto il mondo - che da Willamette Valley a Wellington, passando per Mazzon, vinificano l’ostico pinot nero – e per i curiosi che vogliono capire in quali condizioni nascano i 40 ettolitri (circa) di vino più celebri del pianeta.
Non ho mai visitato il Domaine de La Romanée-Conti (le loro vigne invece sì e più di una volta, come tanti del resto). In diverse occasioni, invece, ho bevuto il loro vino più raro: il battesimo fu con il 1982, che non scorderò mai più. Ne rammento ogni dettaglio nonostante siano passati sei anni: colore emulsionato, appena velato, crepuscolare eppure luminoso. Un profumo purissimo, che ricordava un infuso orientale, il peperone maturo, il tabacco, i fiori dolci e chissà cos’altro (non vi tedio). Una meraviglia la sua bocca, con i tannini impalpabili, ma di sapore e traino enormi; la sua spinta era inarrestabile, la profondità delle sensazioni abissale, le sollecitazioni non lasciavano tregua. Sublime e inarrivabile, neanche a dirlo, la persistenza, che in termini grettamente economici, vale – oggi più che mai - mille euro al minuto*, spiccioli più, spiccioli meno.
*E’ probabile che ai tempi di Luigi XIV, che ne ingoiava a cucchiai per curare la sua fistola gastrica, fosse un vino assai meno caro.
GLI ALTRI CINQUE “GRAND CRU” DI VOSNE-ROMANEE:
LA GRAND RUE (1 ha 65 a 7 ca): la vigna si presenta come una striscia di terra, mai più larga di 50 metri, che scorre al di sopra del centro abitato di Vosne Romanée, tra i mitologici climat di La Tâche e dei tre Romanée (Romanée St.Vivant, Romanée Conti e La Romanée), da cui è separata da una piccola strada di confine che sancisce anche una differenza nei terreni. Le piante, seguendo il leggero pendio, degradano dai 300 m/slm ai 260 m/slm, con un’esposizione completamente a est. I terreni, soprattutto nella parte inferiore sono meno profondi e più ricchi di argille calcaree risalenti al giurassico medio. Dal 1933 è un monopolio della famiglia Lamarche, che ne ha acquistato la proprietà dalla famiglia Liger-Belair, e, contrariamente ai pari grado del comune, è solo con il millesimo 1991 che ha raggiunto il rango di “Grand Cru”. Per il momento, il valore dei vini che nascono in questa striscia di terra non sembra essere all’altezza di quello degli altri cinque “Grand Cru” del comune.
LA TÂCHE (6 ha 6 a 20 ca): prima di diventare l’entità catastale che oggi tutti conosciamo, (monopolio del Domaine de la Romanée Conti), La Tâche è stata a lungo frazionata e suddivisa tra diversi produttori. La parcella originaria (il La Tâche propriamente detto: 1 ha 43 a 45 ca), è stata nelle mani dei Liger-Belair dal 1833 fino al 1933, quando tutti i beni di famiglia furono messi all’asta. L’acquisto di questo appezzamento da parte del DRC permise ai nuovi proprietari di renderla praticamente un corpo unico con una porzione del confinante Les Gaudichots (4 ha 62 a 75 ca), arrivando così alle sue dimensioni attuali. A completare l’opera intervennero alcuni scambi di minuscole parcelle con la famiglia Lamarche. Posta tra il Malconsorts, a sud, e La Grande Rue, a nord, La Tâche gode di una tenue inclinazione che accompagna i suoi filari dai 250 ai 300 m/slm, offrendo loro una perfetta esposizione a est, su un suolo altamente sassoso che garantisce un drenaggio ottimale. I vini che se ne ottengono, pur rispettando l’eleganza insita nel comune sui cui ricadono i suoi confini, mostra una tensione notevole, una muscolarità energica e una persistenza infinita, inebriante.
LA ROMANEE (0 ha 80 a 52 ca): questo minuscolo climat, un fazzoletto di terra che non raggiunge l’ettaro, è anche la più piccola denominazione di Francia e con ogni probabilità del mondo. E pensare che nonostante le sue modeste dimensioni questa vigna è rimasta frazionata in sei parcelle fino al XIX secolo, quando il generale Louis Liger-Belair ne acquistò l’intera proprietà e la trasformo in un corpo unico. Oggi La Romanée continua a essere un monopolio della famiglia Liger-Belair, che dal 2005 è tornata a essere anche l’unica a firmare un vino proveniente da questo climat, interrompendo un contratto d’affitto con la maison de négoce Bouchard Pere et Fils. L’appezzamento è rettangolare e rappresenta il proseguimento naturale verso est di quello del Romanée Conti, rispetto al quale presenta una maggiore pendenza (circa il 12 per cento) e un minore tenore di argilla. La roccia madre, appartenente al Baiociano e al Batoniano, dista poche decine di centimetri e apporta un notevole contributo in termini di sassi, scheletro e drenaggio.
RICHEBOURG (8 ha 03 a 45 ca): grand cru tra i più celebri di Borgogna, è composto da due lieux-dits, il Richebourg propriamente detto (5 ha 05 a 18 ca) e il Les Veroilles (2 ha 98 a 27 ca), che presenta un’esposizione appena più fresca. Osservandolo dal paese si presenta come il prolungamento verso la “Cote” del Romanée St.Vivant, con cui confina sul lato orientale. In direzione sud le sue vigne lambiscono quelle del Romanée Conti e de La Romanèe, mentre in direzione nord sanciscono la fine della costellazione dei Grand Cru” di Vosne Romanée. Il suolo, formatosi durante il Baiociano, presenta uno strato di terra vegetale sottilissimo, al di sotto del quale si nasconde uno scheletro di piccoli sassi bianchi che si alternano ad argille brune. Il nome di questa vigna compare per la prima volta nel 1512, un arco di tempo che non è riuscito a fugare i dubbi sulla corretta etimologia; tuttavia, la fonetica del nome preannuncia la ricchezza e la potenza che si ritrovano molto spesso nel calice. La proprietà è suddivisa attualmente fra 11 produttori: Domaine de la Romanée Conti (3,51 ha), Leroy (0,78 ha), Gros Frere et Soeur (0,69 ha), AF Gros (0,60 ha), Anne Gros (0,60), Thibault Liger Belair (0,55 ha), Méo-Camuzet (0,34 ha), Grivot (0,32 ha), Mongeard-Mugneret (0,31 ha), Hudelot Noellat (0,28 ha), Clos Frantin (0,07 ha).
ROMANEE SAINT VIVANT (9 ha 43 a 74 ca): il nome di questo vigneto compare per la prima volta nel 1765 e deriva dalla volontà di celebrare l’ordine dell’eponima abbazia intitolata all’evangelista St. Viventius, che nel IV secolo giunse a Vendée, sulla costa atlantica, per convertire i nativi. Le sue reliquie accompagnarono il lungo peregrinare dei monaci che ne avevano seguito l’esempio e che attorno al IX secolo approdarono nelle colline di Vergy, in Borgogna. Qui, subordinati al grande priorato di Cluny, attraverso ingenti donazioni del Duca Hugues II (1084-1183), accorparono diversi terreni allora incolti, prevalentemente in Vosne e Flagey, tra cui il “Cloux des Neuf Journaux” (3,06 ha), il “Cloux du Moytan” (1,70 ha), il “Cloux du Quatre Journaux” (1,36 ha) e il “Cloux du Cinq Journaux”. Se i primi tre appezzamenti costituiscono il cuore “storico” del Romanée St.Vivant, l’ultimo altro non è che il celeberrimo Romanée Conti, ceduto dai monaci nel 1584. L’aneddotica, supportata da alcune mappature, ha alimentato nella letteratura il pensiero che il Romanée Saint Vivant abbia raggiunto le dimensioni attuali (9,43 ha) tra il 1791 e il 1898, periodo nel quale la sua proprietà fu nelle mani della famiglia Marey-Monge. Il suolo è relativamente profondo (90cm) e ricco di gesso e argille; la pendenza è pressoché nulla e il drenaggio è più lento rispetto alla media degli altri “Grand Cru” del comune. Nonostante questo, non esistono dubbi sulla qualità assoluta dei vini che vi nascono, di finezza e profondità aromatica superiori. Il DRC, con i suoi 5,29 ettari insediati nella sezione centrale del cru, ne possiede oltre la metà, mentre madame Leroy, seconda in termini di dimensioni, si deve “accontentare” di 0,99 ettari nell’estremità nord del vigneto, vicino agli appezzamenti di J.J. Confuron (0,50 ha) e Hudelot Noellat (0,48 ha). Gli altri 6 proprietari sono i seguenti: Louis Latour (0,76 ha), Poisot per Drouhin (0,49 ha), Robert Arnoux (0,35 ha), de l’Arlot (0,25 ha), Sylvain Cathiard (0,17 ha) e Dujac (0,17 ha).