LARMANDIER-BERNIER, TERRE DE VERTUS 2008: LO CHAMPAGNE INCONTRA LA NATURA
di STEFANO ZAGHINI - 16 agosto 2015
“Osservata attraverso le pareti vetrate di casa Farnsworth,
la natura assume un significato più profondo”
(Ludwig Mies Van Der Rohe)
Quante cose ha creato l’uomo…e ha fatto anche dei capolavori!
Tra le sue invenzioni più riuscite, quelle che di gran lunga preferisco, ci sono la camera fotografica e il pianoforte, entrambe “macchine autonome” capaci di produrre arte all’istante.
Di certo anche lo Champagne è una sublime “icona del genio umano”, un’artificiosa combinazione di tecnica e tradizione,
capace nel tempo di creare un metodo unico ed esclusivo.
Nel controverso rapporto tra vigneron e terroir ritrovo espressa una dialettica filosofica simile alle contraddizioni artistiche delle avanguardie del Novecento, come il rapporto tra la creatività (a volte distruttiva) dell’uomo e la definizione di stato di natura.
Con Casa Farnsworth del 1951, costruita a Plano (Illinois) negli Stati Uniti da Mies Van de Rohe, ciò che mi interessa sottolineare è l’atteggiamento intimo e confidenziale con il quale l’architetto tedesco si rapporta con la natura qui rappresentata come una sorta di bosco urbano.
Realizzata per un noto medico americano, questa residenza diviene ben presto un’icona dell’architettura contemporanea, che sintetizza una perfetta interazione tra lo spazio e il suo ambiente circostante. Una struttura in ferro e vetro di massima precisione, che simboleggia il manifesto estremo della ricerca di un nuovo spazio per la vita degli uomini, capace di concretizzare il sogno moderno di una casa non più rifugio da una natura dura e ostile, ma un luogo dove abitare immergendosi totalmente con essa, superando al contempo l’illusione di una architettura “naturale”.
L’opera costruita è un artificio dell’ingegno umano, tuttavia Mies, condividendo le idee del filosofo e teologo italo-tedesco Romano Guardini, per il quale la natura diventa interessante solo nel momento che subisce l’azione culturale dell’uomo (processo di trasformazione detto di “derealizzazione”), compie con quest’opera uno sforzo di riduzione del lessico grammaticale architettonico portandolo per approssimazione al suo grado zero.
Casa Farnsworth rappresenta così la supremazia dell’omissione; l’architetto, senza ostentare e con un genio tutto in sottrazione e senza alcun mimetismo di matrice organica, riesce a esprimere un contatto immediato con la natura come mai nessuno aveva fatto in precedenza.
Anche la lunga storia dello Champagne ci racconta di un difficile rapporto tra la tecnica e il contesto naturale in cui esso viene prodotto.
Ad esempio, se i pensatori illuministi francesi amavano degustare Champagne nei loro incontri intellettuali - soprattutto nella tipologia “blanc de blancs” - era dovuto ad una personale interpretazione del “vin du diable” come principio del predominio razionale dell’uomo sulla natura.
Dalla seconda metà dell’Ottocento, l’ansia per un progresso scientifico (troppo) accelerato, che avrebbe visto la sua apoteosi con l’esposizione Universale di Parigi del 1900, produce anche nella Champagne una spinta progressiva necessaria a sopperire alle difficoltà di un territorio difficile e ostile. Nel secolo scorso, nonostante le due guerre mondiali, le conseguenze di questo progresso degenerano nello scempio di un’agricoltura negata, soprattutto negli anni 60/70, con l’utilizzo scriteriato di prodotti di sintesi e di fitofarmaci necessari a garantire una produzione che potesse fronteggiare una domanda superiore all’offerta.
E’ solo dagli anni Novanta che si sviluppa un sentire più naturale da parte di alcuni vigneron, con un approccio arrivato a ridurre al grado zero il controverso rapporto uomo-natura, bandendo di fatto l’intervento chimico. Grazie ad alcuni pionieri come Larmandier Bernier, precursori nel rivendicare un’identità territoriale forte e precisa, si è diffusa nella Champagne una coscienza ecologica, supportata anche dal progressivo rialzo termico medio delle temperature che ha attenuato in parte le difficoltà passate.
Molti “recoltant manipulant” sono oggi disposti a indagare la natura più profonda del loro territorio di elezione,
con un savoir-faire che si esplica in una capacità ad intervenire il meno possibile nel laborioso processo di accompagnamento delle uve fino alla rifermentazione del vino in bottiglia.
Il maggior utilizzo di lieviti autoctoni rappresenta sempre più spesso la volontà di un’espressività sincera e naturale, che si esprime attraverso un linguaggio più puro e diretto di questi Champagne.
Se nella nouvelle vague dell’Aube l’etichetta “bio” spesso si palesa come garanzia di un vantaggio competitivo, nella Cote de Blancs, invece, la “scelta etica” è la forza motrice della gestione aziendale di vigneron come Pierre Larmandier e sua moglie Sophie; una scelta che li ha portati da oltre vent’anni a bandire prodotti chimici e di sintesi, preferendo per i loro vigneti le regole e i principi di un’agricoltura sostenibile, solo secondariamente certificata “bio” (Qualitè France).
Residenti nella Cote des Blancs da oltre due secoli, a Cramant, i Larmandier si limitano a un’attività di coltivazione e vendita delle uve fino ai primi del 900, quando iniziano a produrre Champagne in proprio. Nel 1971 avviene il matrimonio tra Philippe Larmandier ed Elisabeth Bernier, erede diretta di una famiglia di viticoltori in quel di Vertus, che porta in dote, oltre al cognome, alcuni importanti ettari di vigna. Insieme, Philippe ed Elisabeth, prendono in mano le redini della maison di famiglia, guidandola con sicurezza per diversi anni per passarla poi sul finire degli anni Ottanta al figlio Pierre, l’attuale regisseur, all’epoca residente a Parigi.
Oggi l’azienda conta su circa 14 ettari di vigneto, con un’età media di 35-40 anni, sviluppato principalmente a Vertus, Cramant, Avize e Oger.
Lo chardonnay copre l’85- 90% della superficie, il resto è pinot nero.
In vigna le viti poggiano su terreni lavorati manualmente e inerbiti, con lo scopo di spingere le radici il più possibile in profondità. Nonostante non possieda attualmente una certificazione biodinamica, alcune parcelle e la filosofia aziendale, almeno dal 1999, sono assimilabili a questi principi.
In cantina, come detto, nessun lievito esogeno o selezionato; la vinificazione è di tipo parcellare; l’utilizzo dei legni, di varia dimensione, o dell’acciaio, con tini termoregolati, avviene a seconda delle caratteristiche organolettiche del mosto; il lungo affinamento dei vin clair sulle fecce fini attende lo svolgimento completo della fermentazione malolattica; nessuna base spumante viene filtrata. I dosaggi sono parsimoniosi e avvengono con mosto concentrato rettificato, ad eccezione del Terre de Vertus che non subisce alcuna dolcificazione.
Proprio a quest’ultima cuvée sembra affidato il ruolo di mantenere un forte legame con lo stile algido e affilato delle versioni passate, rispetto al resto della gamma firmata Larmandier Bernier, caratterizzata negli ultimi anni da un maggiore dettaglio, ma anche da morbidezze e una certa immediatezza di beva.
la natura assume un significato più profondo”
(Ludwig Mies Van Der Rohe)
Quante cose ha creato l’uomo…e ha fatto anche dei capolavori!
Tra le sue invenzioni più riuscite, quelle che di gran lunga preferisco, ci sono la camera fotografica e il pianoforte, entrambe “macchine autonome” capaci di produrre arte all’istante.
Di certo anche lo Champagne è una sublime “icona del genio umano”, un’artificiosa combinazione di tecnica e tradizione,
capace nel tempo di creare un metodo unico ed esclusivo.
Nel controverso rapporto tra vigneron e terroir ritrovo espressa una dialettica filosofica simile alle contraddizioni artistiche delle avanguardie del Novecento, come il rapporto tra la creatività (a volte distruttiva) dell’uomo e la definizione di stato di natura.
Con Casa Farnsworth del 1951, costruita a Plano (Illinois) negli Stati Uniti da Mies Van de Rohe, ciò che mi interessa sottolineare è l’atteggiamento intimo e confidenziale con il quale l’architetto tedesco si rapporta con la natura qui rappresentata come una sorta di bosco urbano.
Realizzata per un noto medico americano, questa residenza diviene ben presto un’icona dell’architettura contemporanea, che sintetizza una perfetta interazione tra lo spazio e il suo ambiente circostante. Una struttura in ferro e vetro di massima precisione, che simboleggia il manifesto estremo della ricerca di un nuovo spazio per la vita degli uomini, capace di concretizzare il sogno moderno di una casa non più rifugio da una natura dura e ostile, ma un luogo dove abitare immergendosi totalmente con essa, superando al contempo l’illusione di una architettura “naturale”.
L’opera costruita è un artificio dell’ingegno umano, tuttavia Mies, condividendo le idee del filosofo e teologo italo-tedesco Romano Guardini, per il quale la natura diventa interessante solo nel momento che subisce l’azione culturale dell’uomo (processo di trasformazione detto di “derealizzazione”), compie con quest’opera uno sforzo di riduzione del lessico grammaticale architettonico portandolo per approssimazione al suo grado zero.
Casa Farnsworth rappresenta così la supremazia dell’omissione; l’architetto, senza ostentare e con un genio tutto in sottrazione e senza alcun mimetismo di matrice organica, riesce a esprimere un contatto immediato con la natura come mai nessuno aveva fatto in precedenza.
Anche la lunga storia dello Champagne ci racconta di un difficile rapporto tra la tecnica e il contesto naturale in cui esso viene prodotto.
Ad esempio, se i pensatori illuministi francesi amavano degustare Champagne nei loro incontri intellettuali - soprattutto nella tipologia “blanc de blancs” - era dovuto ad una personale interpretazione del “vin du diable” come principio del predominio razionale dell’uomo sulla natura.
Dalla seconda metà dell’Ottocento, l’ansia per un progresso scientifico (troppo) accelerato, che avrebbe visto la sua apoteosi con l’esposizione Universale di Parigi del 1900, produce anche nella Champagne una spinta progressiva necessaria a sopperire alle difficoltà di un territorio difficile e ostile. Nel secolo scorso, nonostante le due guerre mondiali, le conseguenze di questo progresso degenerano nello scempio di un’agricoltura negata, soprattutto negli anni 60/70, con l’utilizzo scriteriato di prodotti di sintesi e di fitofarmaci necessari a garantire una produzione che potesse fronteggiare una domanda superiore all’offerta.
E’ solo dagli anni Novanta che si sviluppa un sentire più naturale da parte di alcuni vigneron, con un approccio arrivato a ridurre al grado zero il controverso rapporto uomo-natura, bandendo di fatto l’intervento chimico. Grazie ad alcuni pionieri come Larmandier Bernier, precursori nel rivendicare un’identità territoriale forte e precisa, si è diffusa nella Champagne una coscienza ecologica, supportata anche dal progressivo rialzo termico medio delle temperature che ha attenuato in parte le difficoltà passate.
Molti “recoltant manipulant” sono oggi disposti a indagare la natura più profonda del loro territorio di elezione,
con un savoir-faire che si esplica in una capacità ad intervenire il meno possibile nel laborioso processo di accompagnamento delle uve fino alla rifermentazione del vino in bottiglia.
Il maggior utilizzo di lieviti autoctoni rappresenta sempre più spesso la volontà di un’espressività sincera e naturale, che si esprime attraverso un linguaggio più puro e diretto di questi Champagne.
Se nella nouvelle vague dell’Aube l’etichetta “bio” spesso si palesa come garanzia di un vantaggio competitivo, nella Cote de Blancs, invece, la “scelta etica” è la forza motrice della gestione aziendale di vigneron come Pierre Larmandier e sua moglie Sophie; una scelta che li ha portati da oltre vent’anni a bandire prodotti chimici e di sintesi, preferendo per i loro vigneti le regole e i principi di un’agricoltura sostenibile, solo secondariamente certificata “bio” (Qualitè France).
Residenti nella Cote des Blancs da oltre due secoli, a Cramant, i Larmandier si limitano a un’attività di coltivazione e vendita delle uve fino ai primi del 900, quando iniziano a produrre Champagne in proprio. Nel 1971 avviene il matrimonio tra Philippe Larmandier ed Elisabeth Bernier, erede diretta di una famiglia di viticoltori in quel di Vertus, che porta in dote, oltre al cognome, alcuni importanti ettari di vigna. Insieme, Philippe ed Elisabeth, prendono in mano le redini della maison di famiglia, guidandola con sicurezza per diversi anni per passarla poi sul finire degli anni Ottanta al figlio Pierre, l’attuale regisseur, all’epoca residente a Parigi.
Oggi l’azienda conta su circa 14 ettari di vigneto, con un’età media di 35-40 anni, sviluppato principalmente a Vertus, Cramant, Avize e Oger.
Lo chardonnay copre l’85- 90% della superficie, il resto è pinot nero.
In vigna le viti poggiano su terreni lavorati manualmente e inerbiti, con lo scopo di spingere le radici il più possibile in profondità. Nonostante non possieda attualmente una certificazione biodinamica, alcune parcelle e la filosofia aziendale, almeno dal 1999, sono assimilabili a questi principi.
In cantina, come detto, nessun lievito esogeno o selezionato; la vinificazione è di tipo parcellare; l’utilizzo dei legni, di varia dimensione, o dell’acciaio, con tini termoregolati, avviene a seconda delle caratteristiche organolettiche del mosto; il lungo affinamento dei vin clair sulle fecce fini attende lo svolgimento completo della fermentazione malolattica; nessuna base spumante viene filtrata. I dosaggi sono parsimoniosi e avvengono con mosto concentrato rettificato, ad eccezione del Terre de Vertus che non subisce alcuna dolcificazione.
Proprio a quest’ultima cuvée sembra affidato il ruolo di mantenere un forte legame con lo stile algido e affilato delle versioni passate, rispetto al resto della gamma firmata Larmandier Bernier, caratterizzata negli ultimi anni da un maggiore dettaglio, ma anche da morbidezze e una certa immediatezza di beva.