PHILIPPE PACALET RACCONTATO E INTERVISTATO DA ENOCODE
di LUCIO FOSSATI - 01 luglio 2018
Lo puoi trovare a Cerea, dietro un banchetto di ViniVeri che si incazza con un avventore e molla tutto lì, chissà per quale motivo. Oppure lo puoi trovare, con fare curioso, ad assaggiare oltre l'orario di chiusura i vini dei colleghi nella cave Ackerman durante la Dive Bouteille. Di primo acchito appare sempre piuttosto diffidente, ma poi diviene capace di argomentare anche oltre il richiesto. È considerato negociant perché acquista da parcelle non proprie, ma anche vigneron perché si sporca le mani sul serio, nel campo e nella cantina. Enologo di formazione, ma poi anche agronomo di vocazione, pur avendo sconfessato l'ortodossia della regola biodinamica.
Gesualdo Bufalino diceva che "in un mondo di inerzie la contraddizione è l'unico movimento". Di sicuro Philippe Pacalet si è mosso molto, dopo i diversi anni da régisseur di Prieuré Roch e gli esordi in vigna con lo zio Marcel Lapierre. Piuttosto ferma è rimasta, invece, la sua idea di vino, strettamente legata all'utilizzo del grappolo intero: luminosità, rarefazione ed energia. I vini col raspo in genere non ti lasciano indifferenti, ti piacciono o no. Mi sono innamorato della loro vibrazione qualche anno fa, ora la passione è più matura perché lungamente consumata attraverso i tanti interpreti.
Se da un lato l'utilizzo del grappolo intero - quando volto a preservare l’integrità dell’acino - sottrae peso ed infonde energia al liquido odoroso, dall’altro dilata l'incontro con il territorio per via dell'esuberanza dei suoi aromi e delle sue glicerine. Una recente orizzontale del millesimo 2015 dei vini di Pacalet, nella quale figuravano anche quattro Premier Cru della Côte d'Or, mi ha dato l'occasione di ritestare la definizione della matrice territoriale filtrata attraverso la sensibilità di questo produttore (i Premier Cru dovrebbero farlo ancor più del rango superiore). Ecco qualche appunto.
Chambolle Musigny 1er cru “Les Sentiers”. Non ci sembra solido come quello del giovane Stephane Magnien o ampio come quello di Groffier. Ma è Chambolle fino al midollo! Lo stile di Pacalet enfatizza la sua grazia aerea. Un volo di farfalla sugli immancabili piccoli frutti borgognoni, uno spruzzo di lime, una sfumatura di radice di liquirizia ed una reminiscenza di acqua di rose. Un tannino dolce come ci si può aspettare da un 15. Per chi non conosce Chambolle può essere una elegantissima sintesi di questo comune.
Gevrey Chambertin 1er cru “La Perrière”. A Gevrey Chambertin il tannino si fa sentire. Ma la cifra del Perrière è nella spinta sapida. Sulla pietraia c'è un terreno evidentemente drenante che forse ingrossa il frutto meno velocemente, ma lo aiuta a maturare anche nelle sue parti meno esposte. Nei chicchi si culla un concentrato di vitalità che nasconde in gioventù pizzi e merletti, ma coinvolge in prodigiose trazioni verticali. Al netto della soavità espressiva di Pacalet un Perrière ben riconoscibile che attende di metabolizzare il raspo.
Gevrey Chambertin 1er cru “Lavaux Saint Jacques”. Qui siamo in un Cru di Gevrey Chambertin dove la spinta tannica è potente. La bocca fa pensare subito ad un terreno con più presenza di argilla rispetto ai precedenti. Qui non c'è più il lampone o il ribes, ma l'amarena sotto spirito. Certamente un vino per chi ama più l'intensità ed il calore. Tutto gira attorno a un tannino robusto ma di foggia fine. Emerge una identità territoriale a prescindere dalla mano del vigneron.
Nuits Saint Georges 1er cru “Aux Argillas”. Nuits Saint Georges era il comune borgognone prediletto dai miei clienti poco affezionati alle leggerezze del Pinot Nero. Sono vini più maschili, più serrati e muscolosi, capaci di prolungarsi nel tempo concedendo qualcosa alla finezza. Aux Argillas mostra la propria maggior matericità già dal colore, all'olfazione la grassezza della terra si presenta accompagnata dagli immancabili frutti rossi, in questo caso molto maturi, e da qualche timido accenno di tabacco dolce. Il tannino è di grana più grossa rispetto ai precedenti, ma è comunque maturo. Una nuvola di morbidezza ti invade sofficemente il cavo orale cedendo poi di persistenza per un deficit di spinta a centrobocca. L'andamento climatico del 15 ed un terreno più sciolto di quanto non faccia supporre il nome del Cru, contribuiscono ad una prontezza superiore alla media di Nuits. Tuttavia, gli altri indizi organolettici non possono che indirizzare a Nuits Saint Georges.
In definitiva Pacalet esprime sempre una sua cifra stilistica (di classe), nel rispetto delle coordinate cardinali delle varie parcelle che vinifica. Non sempre interpretazioni classiche di riferimento per i Cru, ma sempre vini di grande bevibilità e di raffinatissima franchezza.
Riportiamo di seguito un’intervista eseguita nel marzo del 2012 da Filippo Apollinari
Filippo Apollinari: Buongiorno Philippe, benvenuto in Italia.
Philippe Pacalet: Grazie, buongiorno a voi.
FA: Entro subito nel vivo. In Italia siamo colpiti spesso dalla “sindrome del tifoso”; per ogni argomento cerchiamo sempre di individuare almeno due posizioni tra loro contrastanti per poi schierarci in favore di una o dell’altra. Un atteggiamento che si ripete anche quando si parla di Borgogna, o delle nostre Langhe, dove tendiamo a “catalogare” i produttori in “modernisti” e “tradizionalisti”. Come vivete voi questa distinzione?
PP: (sorride) E’ vero, voi avete una passionalità incredibile. Una caratteristica che vi porta ad eccellere in numerosi settori, ma che talvolta vi limita perché non riuscite a rimanere uniti; non fate gruppo. Noi in questo siamo più bravi. Per quanto riguarda la Borgogna diciamo che in questa regione coesistono diversi stili; negli ultimi due decenni si è sviluppata una filosofia produttiva che possiamo chiamare “moderna”, in cui si predilige l’utilizzo di macerazioni pre-fermentative a freddo (MPF) e l’utilizzo di legni nuovi. Un modo per ottenere Pinot Nero più colorati e con strutture più imponenti.
FA: E prima di questa nuova tendenza?
PP: Prima degli anni Settanta, le tecniche erano più arcaiche, o se preferite “tradizionali”, ed il modo più utilizzato per avere maggiore energia nei vini era la macerazione a grappolo intero o comunque con i raspi.
FA: Tu come ti consideri?
PP: Io non mi sento né tradizionalista, né modernista; piuttosto amo definirmi un progressista.
FA: Spiegati meglio per favore.
PP: Sono estremamente convinto che il valore di un vino dipenda direttamente dal terreno da cui proviene. Non ho alcuna preclusione nei confronti delle varie tecniche produttive, purchè queste non alterino l’equilibrio del suolo. Io ho un rispetto maniacale per il suolo, perché ho bisogno di lui. Non posso maltrattare o violentare il principale artefice dei miei vini; equivarrebbe a delegittimare tutto il mio lavoro ed il valore storico e qualitativo di questa regione.
FA: Quindi niente concimi chimici!?
PP: Assolutamente no. I concimi chimici li conosco bene, perché il mio percorso formativo è passato anche dallo studio di queste sostanze e posso dire, per certo, che hanno la tendenza ad inibire il suolo e appiattire le differenze che intercorrono fra i diversi climat (appezzamenti). Quindi ancora una volta sarebbe rinnegare il valore inestimabile della Borgogna.
FA: Ed in cantina come ti comporti?
PP: In cantina vale lo stesso discorso. L’obiettivo è non alterare le caratteristiche delle uve provenienti dai singoli climat. Quindi niente macerazioni pre-fermentative a freddo, niente lieviti selezionati e, soprattutto, niente solforosa durante la fermentazione.
FA: Non hai paura che partano fermentazioni anomale o che si diffondano batteri?
PP: Beh la paura fa parte del gioco, ma utilizzando esclusivamente lieviti indigeni, la solforosa è inevitabilmente bandita; i lieviti indigeni dell’uva non possono lavorare se c’è solforosa. Per limitare al minino il rischio di fermentazioni anomale utilizzo, per i primi due giorni, anidride carbonica, in modo che i lieviti lavorino indisturbati in assenza di ossigeno. Successivamente la carbonica si riproduce automaticamente. I lieviti indigeni ti permettono di rispettare al massimo le diversità delle uve, senza alcun rischio di appiattimento.
FA: Raspi si o Raspi no?
PP: Nelle mie vinificazioni, il raspo assume un ruolo fondamentale. Non utilizzando controllo delle temperature, lascio che sia il raspo a svolgere questa funzione.
FA: Cosa vuoi dire?
PP: Il raspo è composto al 70/80% da sostanze acquose che permettono di limitare notevolmente l’innalzamento delle temperature in vasca e, conseguentemente, di rallentare la velocità della fermentazione. Così posso svolgere macerazioni lente e delicate che arrivano anche a 30 giorni.
FA: E per quanto riguarda i legni?
PP: Vale lo stesso discorso fatto per tutto il resto. Il legno è importante per l’affinamento, ma non deve assolutamente alterare la tipicità di un vino. Per questo utilizzo per oltre il 90% legni usati anche di 5° passaggio.
FA: Beh, a sentirti parlare direi che appare molto chiara quale sia la tua idea di vino; il climat prima di ogni altra cosa, giusto?
PP: Esatto. Io amo la musica e per me produrre vino è come dirigere un’orchestra che suona una meravigliosa melodia. La melodia non l’ho scritta io, è nel suolo e nel vitigno. Io non devo cambiare nulla, devo solo ripulire il suono da eventuali note stonate. Così i miei vini non devono essere cervellotici e tantomeno dei vini studiati per le degustazioni, devono solo essere lo specchio di un territorio. La gente deve poter bere un mio vino mentre chiacchiera con un amico e senza accorgersene deve svuotare la bottiglia. Cosa c’è di più bello che conversare con qualche amico ascoltando buona musica in sottofondo?
FA: Sei stato chiarissimo! Resisti ancora per qualche domanda!
PP: Certo.
FA: Come è iniziata la tua carriera produttiva?
PP: Ho iniziato 26 anni fa, presso Marcel Lapierre (uno dei leader del vino naturale in Francia, ndr); ma l’esperienza che mi ha maggiormente formato, l’ho vissuta al fianco di Henri-Frédéric Roch, proprietario del Domaine Prieuré Roch (nipote di Madame Lalou Leroy e oggi co-direttore del mitico Domaine del La Romanèe Conti).
FA: La scelta di vendere tutti gli appezzamenti che possedevi per costruirti una nuova cantina è al centro di numerose discussioni tra appassionati; quando hai preso questa decisione?
PP: (Sorride) Quando ho capito che dagli appezzamenti di proprietà non avrei mai potuto produrre i vini che volevo, ho deciso di investire in una cantina che mi permettesse di esprimere al meglio il potenziale delle uve che di lì a poco ero sicuro di poter gestire. E così ho fatto. Ora controllo personalmente 12 ha di vigne suddivise in 30 climat, di proprietà di amici-vignaioli che gestiscono i loro possedimenti scrupolosamente secondo le mie direttive.
FA: Beh direi che la tua scelta è stata vincente!
PP: Grazie, lo speravo.
FA: Grazie infinite a te Philippe, per i vini meravigliosi che produci e per il tempo che ci hai dedicato.
PP: Grazie a voi.
Gesualdo Bufalino diceva che "in un mondo di inerzie la contraddizione è l'unico movimento". Di sicuro Philippe Pacalet si è mosso molto, dopo i diversi anni da régisseur di Prieuré Roch e gli esordi in vigna con lo zio Marcel Lapierre. Piuttosto ferma è rimasta, invece, la sua idea di vino, strettamente legata all'utilizzo del grappolo intero: luminosità, rarefazione ed energia. I vini col raspo in genere non ti lasciano indifferenti, ti piacciono o no. Mi sono innamorato della loro vibrazione qualche anno fa, ora la passione è più matura perché lungamente consumata attraverso i tanti interpreti.
Se da un lato l'utilizzo del grappolo intero - quando volto a preservare l’integrità dell’acino - sottrae peso ed infonde energia al liquido odoroso, dall’altro dilata l'incontro con il territorio per via dell'esuberanza dei suoi aromi e delle sue glicerine. Una recente orizzontale del millesimo 2015 dei vini di Pacalet, nella quale figuravano anche quattro Premier Cru della Côte d'Or, mi ha dato l'occasione di ritestare la definizione della matrice territoriale filtrata attraverso la sensibilità di questo produttore (i Premier Cru dovrebbero farlo ancor più del rango superiore). Ecco qualche appunto.
Chambolle Musigny 1er cru “Les Sentiers”. Non ci sembra solido come quello del giovane Stephane Magnien o ampio come quello di Groffier. Ma è Chambolle fino al midollo! Lo stile di Pacalet enfatizza la sua grazia aerea. Un volo di farfalla sugli immancabili piccoli frutti borgognoni, uno spruzzo di lime, una sfumatura di radice di liquirizia ed una reminiscenza di acqua di rose. Un tannino dolce come ci si può aspettare da un 15. Per chi non conosce Chambolle può essere una elegantissima sintesi di questo comune.
Gevrey Chambertin 1er cru “La Perrière”. A Gevrey Chambertin il tannino si fa sentire. Ma la cifra del Perrière è nella spinta sapida. Sulla pietraia c'è un terreno evidentemente drenante che forse ingrossa il frutto meno velocemente, ma lo aiuta a maturare anche nelle sue parti meno esposte. Nei chicchi si culla un concentrato di vitalità che nasconde in gioventù pizzi e merletti, ma coinvolge in prodigiose trazioni verticali. Al netto della soavità espressiva di Pacalet un Perrière ben riconoscibile che attende di metabolizzare il raspo.
Gevrey Chambertin 1er cru “Lavaux Saint Jacques”. Qui siamo in un Cru di Gevrey Chambertin dove la spinta tannica è potente. La bocca fa pensare subito ad un terreno con più presenza di argilla rispetto ai precedenti. Qui non c'è più il lampone o il ribes, ma l'amarena sotto spirito. Certamente un vino per chi ama più l'intensità ed il calore. Tutto gira attorno a un tannino robusto ma di foggia fine. Emerge una identità territoriale a prescindere dalla mano del vigneron.
Nuits Saint Georges 1er cru “Aux Argillas”. Nuits Saint Georges era il comune borgognone prediletto dai miei clienti poco affezionati alle leggerezze del Pinot Nero. Sono vini più maschili, più serrati e muscolosi, capaci di prolungarsi nel tempo concedendo qualcosa alla finezza. Aux Argillas mostra la propria maggior matericità già dal colore, all'olfazione la grassezza della terra si presenta accompagnata dagli immancabili frutti rossi, in questo caso molto maturi, e da qualche timido accenno di tabacco dolce. Il tannino è di grana più grossa rispetto ai precedenti, ma è comunque maturo. Una nuvola di morbidezza ti invade sofficemente il cavo orale cedendo poi di persistenza per un deficit di spinta a centrobocca. L'andamento climatico del 15 ed un terreno più sciolto di quanto non faccia supporre il nome del Cru, contribuiscono ad una prontezza superiore alla media di Nuits. Tuttavia, gli altri indizi organolettici non possono che indirizzare a Nuits Saint Georges.
In definitiva Pacalet esprime sempre una sua cifra stilistica (di classe), nel rispetto delle coordinate cardinali delle varie parcelle che vinifica. Non sempre interpretazioni classiche di riferimento per i Cru, ma sempre vini di grande bevibilità e di raffinatissima franchezza.
Riportiamo di seguito un’intervista eseguita nel marzo del 2012 da Filippo Apollinari
Filippo Apollinari: Buongiorno Philippe, benvenuto in Italia.
Philippe Pacalet: Grazie, buongiorno a voi.
FA: Entro subito nel vivo. In Italia siamo colpiti spesso dalla “sindrome del tifoso”; per ogni argomento cerchiamo sempre di individuare almeno due posizioni tra loro contrastanti per poi schierarci in favore di una o dell’altra. Un atteggiamento che si ripete anche quando si parla di Borgogna, o delle nostre Langhe, dove tendiamo a “catalogare” i produttori in “modernisti” e “tradizionalisti”. Come vivete voi questa distinzione?
PP: (sorride) E’ vero, voi avete una passionalità incredibile. Una caratteristica che vi porta ad eccellere in numerosi settori, ma che talvolta vi limita perché non riuscite a rimanere uniti; non fate gruppo. Noi in questo siamo più bravi. Per quanto riguarda la Borgogna diciamo che in questa regione coesistono diversi stili; negli ultimi due decenni si è sviluppata una filosofia produttiva che possiamo chiamare “moderna”, in cui si predilige l’utilizzo di macerazioni pre-fermentative a freddo (MPF) e l’utilizzo di legni nuovi. Un modo per ottenere Pinot Nero più colorati e con strutture più imponenti.
FA: E prima di questa nuova tendenza?
PP: Prima degli anni Settanta, le tecniche erano più arcaiche, o se preferite “tradizionali”, ed il modo più utilizzato per avere maggiore energia nei vini era la macerazione a grappolo intero o comunque con i raspi.
FA: Tu come ti consideri?
PP: Io non mi sento né tradizionalista, né modernista; piuttosto amo definirmi un progressista.
FA: Spiegati meglio per favore.
PP: Sono estremamente convinto che il valore di un vino dipenda direttamente dal terreno da cui proviene. Non ho alcuna preclusione nei confronti delle varie tecniche produttive, purchè queste non alterino l’equilibrio del suolo. Io ho un rispetto maniacale per il suolo, perché ho bisogno di lui. Non posso maltrattare o violentare il principale artefice dei miei vini; equivarrebbe a delegittimare tutto il mio lavoro ed il valore storico e qualitativo di questa regione.
FA: Quindi niente concimi chimici!?
PP: Assolutamente no. I concimi chimici li conosco bene, perché il mio percorso formativo è passato anche dallo studio di queste sostanze e posso dire, per certo, che hanno la tendenza ad inibire il suolo e appiattire le differenze che intercorrono fra i diversi climat (appezzamenti). Quindi ancora una volta sarebbe rinnegare il valore inestimabile della Borgogna.
FA: Ed in cantina come ti comporti?
PP: In cantina vale lo stesso discorso. L’obiettivo è non alterare le caratteristiche delle uve provenienti dai singoli climat. Quindi niente macerazioni pre-fermentative a freddo, niente lieviti selezionati e, soprattutto, niente solforosa durante la fermentazione.
FA: Non hai paura che partano fermentazioni anomale o che si diffondano batteri?
PP: Beh la paura fa parte del gioco, ma utilizzando esclusivamente lieviti indigeni, la solforosa è inevitabilmente bandita; i lieviti indigeni dell’uva non possono lavorare se c’è solforosa. Per limitare al minino il rischio di fermentazioni anomale utilizzo, per i primi due giorni, anidride carbonica, in modo che i lieviti lavorino indisturbati in assenza di ossigeno. Successivamente la carbonica si riproduce automaticamente. I lieviti indigeni ti permettono di rispettare al massimo le diversità delle uve, senza alcun rischio di appiattimento.
FA: Raspi si o Raspi no?
PP: Nelle mie vinificazioni, il raspo assume un ruolo fondamentale. Non utilizzando controllo delle temperature, lascio che sia il raspo a svolgere questa funzione.
FA: Cosa vuoi dire?
PP: Il raspo è composto al 70/80% da sostanze acquose che permettono di limitare notevolmente l’innalzamento delle temperature in vasca e, conseguentemente, di rallentare la velocità della fermentazione. Così posso svolgere macerazioni lente e delicate che arrivano anche a 30 giorni.
FA: E per quanto riguarda i legni?
PP: Vale lo stesso discorso fatto per tutto il resto. Il legno è importante per l’affinamento, ma non deve assolutamente alterare la tipicità di un vino. Per questo utilizzo per oltre il 90% legni usati anche di 5° passaggio.
FA: Beh, a sentirti parlare direi che appare molto chiara quale sia la tua idea di vino; il climat prima di ogni altra cosa, giusto?
PP: Esatto. Io amo la musica e per me produrre vino è come dirigere un’orchestra che suona una meravigliosa melodia. La melodia non l’ho scritta io, è nel suolo e nel vitigno. Io non devo cambiare nulla, devo solo ripulire il suono da eventuali note stonate. Così i miei vini non devono essere cervellotici e tantomeno dei vini studiati per le degustazioni, devono solo essere lo specchio di un territorio. La gente deve poter bere un mio vino mentre chiacchiera con un amico e senza accorgersene deve svuotare la bottiglia. Cosa c’è di più bello che conversare con qualche amico ascoltando buona musica in sottofondo?
FA: Sei stato chiarissimo! Resisti ancora per qualche domanda!
PP: Certo.
FA: Come è iniziata la tua carriera produttiva?
PP: Ho iniziato 26 anni fa, presso Marcel Lapierre (uno dei leader del vino naturale in Francia, ndr); ma l’esperienza che mi ha maggiormente formato, l’ho vissuta al fianco di Henri-Frédéric Roch, proprietario del Domaine Prieuré Roch (nipote di Madame Lalou Leroy e oggi co-direttore del mitico Domaine del La Romanèe Conti).
FA: La scelta di vendere tutti gli appezzamenti che possedevi per costruirti una nuova cantina è al centro di numerose discussioni tra appassionati; quando hai preso questa decisione?
PP: (Sorride) Quando ho capito che dagli appezzamenti di proprietà non avrei mai potuto produrre i vini che volevo, ho deciso di investire in una cantina che mi permettesse di esprimere al meglio il potenziale delle uve che di lì a poco ero sicuro di poter gestire. E così ho fatto. Ora controllo personalmente 12 ha di vigne suddivise in 30 climat, di proprietà di amici-vignaioli che gestiscono i loro possedimenti scrupolosamente secondo le mie direttive.
FA: Beh direi che la tua scelta è stata vincente!
PP: Grazie, lo speravo.
FA: Grazie infinite a te Philippe, per i vini meravigliosi che produci e per il tempo che ci hai dedicato.
PP: Grazie a voi.